Recensione dell’ottobre 97 (ne seguirà un’altra dopo la rilettura della nuova edizione)
” La verità ci rende liberi e nello stesso tempo ci libera non
solo dalla schiavitù del passato, ma anche dal giogo (che non è lieve) e dal peso (che non è buono) delle stupidaggini, della
suscettibilità, delle ferite dell’amor proprio”
Nicu Steinhardt, Diario della felicità, Il Mulino, Bologna, 1995 / Rediviva edizioni Milano 2017
La felicità a cui si allude il titolo è quella di divenire cristiani e questo non certo per una semplificazione di vita , viste le circostanze in cui vive l’ autore in Romania (1912-1989), prima emarginato come ebreo e poi sempre più per il suo rifiuto ad ogni collaborazione col regime comunista, e quindi costretto a vivere di stenti in umili lavori fino a che non è processato e imprigionato.
In tali circostanze, ricerca, ecumenismo, confronto tra religioni si fanno nel quotidiano intessersi di relazioni, che in alcuni anni si fanno “costrette”, gomito a gomito e vivono più della ‘santità’ (cioè della capacità dell’uomo di trasparire 1’Amore, credente o non credente che sia) che di questioni teoriche.
Il Diario è insieme quello del dissidente romeno, quello di un uomo dalla vastissima cultura e memoria e infine quello del “convertito” e quindi diventa testimonianza di una “ricerca” interiore profonda. L’autore non solo si rifiuta di aderire al comunismo ma non se ne va; può svolge solo lavori precari, finché non finisce in prigione come tanti suoi amici intellettuali. , In prigione porta rapidamente a maturazione la sua ricerca religiosa, il suo desiderio di essere cristiano e cristiano ortodosso.
Il suo battesimo in cella, però, avviene in nome dell’ecumenismo per la presenza di due preti greco-cattolici accanto al monaco ortodosso, così come in altri momenti si trova a pregare con ‘preti romano-cattolici, uniati, ortodossi, pastori luterani e calvinisti, tutti insieme, con una fratellanza ecumenica di una bellezza unica, pur nella consapevolezza di essere di fronte a una ‘pseudoliturgia’, oppure proprio per essa capaci di coglierne splendore, intensità, condivisione al di là delle misere apparenze. Uscito dal carcere, riprende l’attività letteraria e contemporaneamente approda al monachesimo per guardare come “da lontano” il mondo che amava e che è innanzi tutto la Romania stessa.
Il Diario, scritto dopo la prigionia, segue una spinta puramente interiore, con un esito disordinato per il lettore, ma che rende la complessità della vita. Ne emerge una forte sottolineatura della capacità umanizzante della cultura e della fede che porta ad essere “vivi” e “umani” anche, o proprio, nelle condizioni più disumane e disumanizzanti.
In un mondo di comodità e di tante possibilità esterne si perde il valore di “portar dentro” tanta storia dell’umanità, tanto di religione, letteratura, arte, musica, mentre solo percependone la portata esse possono davvero incidere nella vita e trasformarla.
La propria vita si costruisce a confronto con gli amici e i “grandi” assimilati e ricordati, per questo il Diario è un intreccio di citazioni degli uni e degli altri. A un certo puto dice: “Ricordiamoci bene che il cristianesimo non è una semplice scuola di onestà, pulizia e giustizia o una spiegazione nobile e razionale della vita (Emil Cioran: la teologia ci svela i misteri meglio della zoologia); o un elevato codice di comportamento (confucianesimo, scintoismo); o una terapia d’evasione (stoicismo, yoga, zen) o una valanga di domande (taoismo); o un atto di sottomissione al Solo (giudaismo, islamismo). Esso è di più e altro: è l’insegnamento di Cristo, cioè dell’amore e della forza salvatrice del perdono. Nessuna religione concepisce altrimenti il perdono dei peccati se non attraverso il cammino logico della compensazione (nel bramanesimo e nel buddismo, mediante samsara, la teoria è spinta sino alle estreme conseguenze); solo nella religione in cui Dio non riceve offerte, ma si offre Egli stesso, è potuta apparire la speranza della cancellazione totale e immediata dei peccati mediante l’atto più sconvolgente e più anticalcolato – dunque anche il più scandaloso”.
Questo è il tipo di confronto che qua e là compare sempre a sottolineare la peculiarità del cristianesimo e a sottolineare il tema che, forse, sta più a cuore all’autore, quello del perdono, vertice del messaggio evangelico, il perdono tra uomini, quello del Signore, sempre considerato costitutivo della crescita interiore e del poter fondare relazioni intramontabili.
L’autore della sua esperienza in carcere può dire: “una cosa è certa: sono guarito per sempre dalle arrabbiature e dai litigi” . Non manca l’impegno politico (in senso lato) , emerge dallo stesso approdare dell’autore a un cristianesimo che esige fede senza abdicare all’intelligenza, – “Il Signore ama l’innocenza non l’’imbecillità’” -, senza abdicare alla libertà ( dice, in sintesi, che se si eliminano libertà e mistero si hanno stupidità e tirannia), per giungere a fare il bene con animo purificato, ad avere il coraggio o la pazienza, secondo le circostanze della vita o meglio a seconda del “terreno di lotta su cui dobbiamo affrontare il male e la provocazione scelta dall’Avversario.” . La vita è una lotta, è molto evidente nella vita dell’autore, ma questo rende più significativo il suo dirci che da credenti è una “felice” lotta.
Giuliana Babini