Note su T. Merton
in occasione della presentazione del libro:
Maurizio Renzini, Thomas Merton Una spiritualità inquieta, Nerbini 2017
L’attualità di T. Merton (1915-68) è fuori discussione anche perché troppi eventi di allora richiamano quelli di oggi, ma vorrei sottolineare che il rapporto tra il monachesimo e la realtà concreta, storica, quotidiana, quel suo scoprirsi membro di una unica umanità senza esenzioni e privilegi (la caduta quindi dell’illusione che una professione monastica rendesse creature “altre”) era emerso nella sua problematicità anche con Charles de Foucauld che muore quando Merton nasce, quindi pienamente una generazione prima. Anche fr. Charles aveva avuto una giovinezza segnata da cose molto simili a quelle di Merton (il restare orfani, la vita disordinata ecc) ed è passato attraverso la trappa o meglio le trappe, in Francia e ad Akbes in Siria, e ne esce per essere più uomo tra gli uomini, fratello universale, ma come dentro resta monaco !.
Tale problematicità era sentita forse in modo diffuso, ovviamente non da tutti, ma nella storia cristiana si potrebbero trovare tanti segni; certo Merton gli dà voce in modo intenso e particolare; una problematicità che dura tuttora non solo nel monachesimo ma in tutta la vita consacrata, visibile o nascosta nel quotidiano: il rapporto Chiesa- Mondo lanciato dal Concilio è un cammino in atto sotto tutti gli aspetti, non certo esaurito.
Ma la capacità di cogliere i problemi del mondo, la vastità delle relazioni, il voler cogliere una fraternità al di là delle differenze religiose sono proprio frutto della vita da monaco capace di risalire alle sorgenti, all’essenziale dietro aspetti rituali ed istituzionali, che nella storia avevano preso il sopravvento, non solo non ne fanno una vocazione laicale se non nel senso originale per il quale il monaco non era necessariamente prete, ma viceversa indica ai laici impegnati nelle realtà di questo mondo che devono essere interiormente più monaci per capire e osare di più, per raggiungere come credenti profondità e coerenza: La Pira insegna!
C’è nella tradizione cristiana orientale quello che si chiama monachesimo interiore che rende bene come sono i cristiani tutti a dover attingere alle fonti monastiche essenziali per una testimonianza coerente o per lo meno per vivere con profondità il proprio posto nel mondo (il padre spirituale di Dostoevskij non gli chiedeva di smettere di giocare, ma di finire i romanzi che erano il suo compito….).
Prima di toccare un secondo punto vorrei ricordare che negli stessi anni un processo similare viveva anche Matta el Meschin (1919-2006) , il monaco copto ortodosso che restaura a Scete (Egitto)il monastero di San Macario; anche lui scrive moltissimo per riattualizzare la tradizione ed è pienamente immerso nella storia del suo popolo e scrive note sul potere politico e quello religioso attuali anche per noi. (Anche i consigli di fr Charles al capo Tuareg non è che non vadano bene anche oggi!). Ci sono cose essenziali che maturano nel tempo e danno frutti diversi in luoghi diversi: il valore di una persona come Merton è farsi eco anche per gli altri di questo e non l’esclusività. Più si contestualizza, più si coglie l’unicum di una persona, sia nella sua fragilità che nella luce che gli irradia da dentro.
Secondo punto: Questo sguardo nuovo, che diventa anche stile nuovo di vita, emerge da persone che hanno desiderato, gustato la solitudine concretamente almeno in un arco della loro vita, ma interiormente forse costantemente.
La fuga autentica dei padri, dei monaci e monache di ogni tempo, dal mondo, è porsi al cuore del mondo, è andare a ciò che veramente conta che è ritrovato proprio in una sana distanza dal proprio particolare tessuto di vita; quella che chiamiamo fuga non è perdere il contatto con i propri simili, ma viverne in profondità i legami in quanto creature della stessa pasta e in ricerca di ciò che possiamo anche chiamare felicità.
La solitudine autentica di cui ci parla Merton in varie sue opere (Pensieri nella solitudine e ancor più nel, credo postumo, “Un vivere alternativo”) non si oppone a fraternità o ad autentica amicizia, queste sono chiamate a custodire solitudine, silenzio, preghiera, lo stesso scrivere (questo fa emergere quanto si ha nelle profondità!) del fratello/sorella, dell’amico/a perché sono i luoghi in cui la propria vocazione acquista spessore. La fraternità, per essere tale, non può non essere intessuta col peso delle diversità, con quel tanto di solitudine che esse implicano, e anche la vocazione più estrema di eremitismo è per i fratelli o non è. Potremmo qui evocare personaggi che hanno vissuto tipi diversi di deserto e solitudine, ma che finiscono per essere pienamente consonanti con questi monaci significativi, penso ad Etty Hillesum, a Bonhoeffer, a Nicu Steinhardt (vive il deserto delle carceri romene), ecc.
Quel margine di solitudine che è poi proprio di ogni persona, se vissuto bene, rende più umani e più cristiani, più capaci di cogliere in profondità eventi e situazioni. Per questo io amo cogliere in figure come Merton il profondo nesso tra la loro ricerca spirituale e la loro lettura del mondo, al di là della chiamata testimoniale che alla fine forse è propria di Merton, almeno nella sua vasta portata, ed è significativo che questa conviva con l’esperienza del limite della propria problematica affettiva che si rivela in pieno nel suo, non certo raro, innamorarsi da cinquantenne di una giovane, al cui bene forse solo a fatica arriva poi a pensare (altrimenti si sarebbe fermato prima, ricordandosi di quanto aveva esperito e detto della solitudine): riscegliere la propria vocazione quando si intravede altra strada è potenziarla, e forse senza questo evento non avremmo avuto il Merton asiatico.
La fecondità della relazione uomo – donna, al di là della consumazione fisica, è tutta , tutta ancora da scavare! Anche se è poco di competenza sua, l’attualità di Merton sta anche nel richiamare una ricerca a riguardo di una vita consacrata, divenuta negli uomini troppo tutt’uno col sacerdozio, e comunque legata talmente a servizi che rischiano di non essere più espressione di tale ricerca e di non offrire più ai cristiani in genere quella testimonianza di profondità, di attesa del Regno, di unificazione di cui hanno bisogno.
Non credo che sia casuale che a riavvicinarci a certe figure monastiche siano oggi uomini come l’autore del libro su citato di altra competenza, più scientifica e sociale che ecclesiale: se si vive la Chiesa come recinto, viene meno il respirare in largo e non si incontrano i nuovi ricercatori delle vie dello Spirito, i sognatori di una vita per il Signore in novità di vita e di cuore, con orizzonte il mondo.
Giuliana Babini