Dall’alto un dono compiuto

                        dal basso un’ offerta

 

«Come raccontare il grande Mistero? Colui, che non ha carne, s’incarna; il Verbo si appesantisce di un corpo; l’Invisibile si fa visibile; Colui, che non può essere toccato, si lascia toccare; Colui, che non ha principio, prende inizio, ed il Figlio di Dio diviene figlio dell’uomo. E’ Gesù Cristo lo stesso, ieri, oggi, nei secoli».

Così si esprime  San Giovanni Damasceno, così cerca di scrivere l’icona, mostrandoci che “dall’alto, discendendo dal Padre delle luci,  viene il dono tutto intero e compiuto” (cfr.Gc1,17):  per i Padri quelle  luci sono il Figlio e  lo Spirito; nell’icona il raggio tripartito (reso molto evidente in questa icona presente nell’opuscolo), come luce divina, contiene lo Spirito e si posa sul Figlio fatto carne, le cui fasce, bianche (luce) o verdi (vita), sempre indicano la vittoria sulle tenebre (grotta/abisso) e sulla morte (culla/tomba), espressione di un intento comune e condiviso, abbracciante creazione e redenzione.
 

E’ dono supremo dall’alto quel bimbo nella mangiatoia-tomba, avvolto in fasce-sudario: mistero è non solo la sua provenienza (in fondo ogni figlio è dono dall’alto, perché solo Dio è il Signore della vita), ma il suo essere molto più che un semplice figlio d’uomo: questo suo mistero è sottolineato dalla madre assorta che non lo guarda e da Giuseppe posto in un angolo “con il cuore in tumulto fra pensieri contrari”, come dice l’antico inno Akathistos, mentre in cielo e in terra si crea tutto un  movimento.

No, non è scena da interno familiare, ma contemplazione delle profondità di un evento.

 

Rileggere i vangeli dell’infanzia davanti all’icona non è semplicemente risalire alle sue fonti ispirative, ma penetrare i testi in modo nuovo, perché l’icona va oltre il fatto narrativo che rende presente in modo coinvolgente.

L’icona  è sintesi dei due Vangeli e non solo di essi (vi influiscono  anche  i vangeli apocrifi di Giacomo e dello pseudoMatteo ed anche innografi come Efrem e Romano il Melode….tutta una tradizione!), e inoltre, attraverso lo sguardo, fa intravedere l’invisibile sintesi  tra l’inizio e la fine del mistero della nostra redenzione, entro cui tutti siamo  collocati e ci muoviamo.

Certo quel bambino è vero uomo e come tutti i figli d’uomo ha bisogno di essere lavato dalla levatrice, ma a svolgere questo compito troviamo, secondo la tradizione,  Eva, madre di tutti i viventi. E’ come se i  primi ad  accorrere alla grotta fossero Adamo ed Eva: la loro attesa di salvezza, protrattasi nei secoli, trova ora finalmente “respiro”, il peso del peccato è tolto, l’uomo è di nuovo amico e intimo del Signore.

Così davanti a Giuseppe è Adamo: lasciamo da parte altre interpretazioni[1] del personaggio vestito di pelli, perché, se c’è Eva, diventa quasi naturale che ci sia Adamo e la loro presenza, richiamo alla  icona della Discesa agli inferi, è come se dicesse che, inglobato nel mistero della natività visto in profondità, c’è tutto il mistero del Figlio di Dio fatto carne, morto per noi e vivente nella luce increata da cui tutto ha origine a  cui tutto ritorna (sfondo dorato).

Eva e Adamo racchiudono in sé tutta la storia prima della discesa del Figlio di Dio che attraverso di loro riceve, riscatta, illumina l’umanità intera chiamata fin dalle origini ad essere immagine di lui e nella sua più intima verità tutta tesa ad andare a lui.

Adamo con la sua veste di pelli, ricordo del peccato, sta lì a rileggere con Giuseppe le profezie, ritrovando il filo della promessa di vittoria sul serpente: la promessa ora si compie e la comunione piena con Dio è di nuovo possibile all’uomo, è possibile quella intimità di vita con lui, a cui  Giuseppe  per primo è chiamato, lui incredulo, ad accoglierla come sua missione particolare, unica, irripetibile.

 

Dalla donna il Figlio accoglie la carne da trasfigurare, dall’uomo l’appartenenza a quella discendenza davidica eletta a strumento di salvezza per l’universo intero.

E il testo di Matteo si intreccia con quello di Luca e convergono nella centrale figura di Maria che Vergine è diventata Madre, posata a ridosso della montagna, quasi a mettere in comunione cielo e terra, tutta pensierosa mentre, attorno a lei, cielo e terra hanno un sussulto e le genti (i magi) e i piccoli (i pastori), dal cuore aperto all’attesa, colgono l’evento e si mettono in movimento, mentre tutta la natura sembra esultare stupita e luminosa.

Le tenebre restano ben visibili ma è come se arretrassero, mentre davanti a loro si pongono e quasi fanno loro da testimoni il bue e l’asino:

“Ho allevato e fatto crescere figli Ma essi si sono ribellati contro di me Il bue conosce il proprietario E l’asino la greppia del padrone Ma Israele non consce e il mio popolo non comprende” (Is 1,3)

 

Il Signore però non si è arreso al cattivo uso della libertà da parte delle sue creature e mostra tutta la sua  decisione efficace di rinnovarle nella vergine Madre vestita di porpora, circondata da rosso fuoco, quale roveto ardente che arde senza consumarsi, già nuova luminosa creatura, avvolta di quello splendore di cui il Signore vuole rivestire ogni credente, ogni osservatore dell’icona che lasci libero spazio alla sua azione.

 

Nell’icona il catino per lavare il nato bimbo ha la forma di un battistero, richiamo quindi all’altro bisogno di lavacro che ha ogni uomo in quanto creatura, al nostro battesimo, ove ci è data la vita secondo lo Spirito che racchiude ogni dono. Possiamo allora riandare a Giacomo che, nella sua lettera, dopo aver messo in  guardia contro il potere delle tenebre-tentazioni, invita a non lasciarsi fuorviare, sedurre da esse,  a volgersi alla luce dell’annuncio evangelico: ogni cosa buona che ci è stata donata e la pienezza del dono vengono dall’alto, dal Padre delle luci che “di sua volontà ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come primizia delle sue creature”.

Ma la vera primizia dell’umanità,  offerta “dal basso” al Signore, ci ricordano ancora una volta i Padri è Maria, nel cui ventre cielo e terra si sono toccati in un modo unico, creatura resa tutta luce ardente, non offuscata dal velato turbamento dello sguardo in attesa del compimento del ritorno al Padre di tutte le cose in Cristo per lo Spirito santo.

Che cosa ti offriremo, o Cristo, poiché tu ti sei mostrato sulla terra per noi come uomo? Ognuna, infatti, delle tue creature ti porta la propria testimonianza di gratitudine: gli angeli, il loro canto; i cieli, la stella; i Magi, i loro doni; i pastori, la loro meraviglia; la terra, la grotta; il deser­to, la mangiatoia. Noi, invece, una Madre Vergine! O Dio, che esistevi prima dei secoli, abbi pietà di noi! 

Corriamo anche noi incontro al Bambino nato per noi con in offerta la nostra vita, perché lui la renda luce nelle oscure strade di questo nostro tempo.

 

 

1Sottolinea questa nostra preferenza G. Gharib, Le icone di Natale, Città nuova, p.196ss.

Come i pastori e come i magi….

Luca 2,8-12

8 C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. 9 Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, 10 ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11 oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. 12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.

Matteo 2,1.2.9b-11

1 Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: 2 “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo….. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10 Al vedere la

stella, essi provarono una grandissima gioia. 11 Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.

 

Mi pare che Luca indichi i pastori e Matteo i magi come modi esemplari per mettersi davanti al mistero della natività del Figlio di Dio e quindi per noi anche modi con cui accostarci a questa icona, che essi segnano in trasversale  con la loro presenza a due angoli opposti, se si escludono le due scene sottostanti, mentre gli altri due angoli sono  caratterizzati entrambi dalla presenza di tre angeli: guardando così l’icona, la linea degli abitanti del cielo si incontra con quella degli abitanti la terra proprio nella mangiatoia-tomba, dove è posato il Salvatore, il Re annunciato dagli uni, ricercato dagli altri.

I pastori vegliano e ascoltano il cielo,  i magi sono in cammino dietro una luce, la stella: anche l’entrare dentro al senso  del mistero che l’icona rende presente è un viaggio e richiede veglia e ascolto, perché i testi uditi molte volte risuonino a un’altra profondità, aiutati dalla espressione sintetica che l’icona offre allo sguardo. L’oscurità interiore si dissolve solo con la veglia e l’ascolto e la ricchezza dei doni di salvezza ci raggiunge solo se siamo aperti a riceverla come il pellegrino assetato di indizi per il suo cammino.

La presenza dei pastori (“due” nell’icona, due  come principio di una moltitudine) nel testo di Luca ci dice che la buona notizia è prima di tutto annunziata ai poveri, a coloro che vivono ai margini della città, perché loro non hanno l’animo ingombro.

E’ forse da notare che come segno l’angelo dà solo “un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia” e non tutta la famiglia. I pastori poi trovano Maria e Giuseppe ed   è ribadito “e  il bambino che giaceva nella mangiatoia”: è la terza volta che si usa questa parola, perché già il testo aveva detto “lo avvolse in fasce e lo depose  in una mangiatoia perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc2,7).

Essa sta quindi ad indicare, con le fasce, qualcosa di importante, e cioè la condizione di povertà in cui il Signore fattosi “figlio” per noi è nato, e questo elemento è portato, per così dire, all’estremo nell’icona in cui la mangiatoia diventa già la tomba, perché è la morte la massima povertà della creatura: il Figlio di Dio assume la nostra carne fino alla sua fragilità estrema di bimbo che non può fare a meno degli altri per sopravvivere, ed  è già segnato comunque dalla morte, davvero un qualcosa che tocca ogni nato, anche non venuto alla luce della vita di questo mondo.

Ecco che noi tutti possiamo già meditare su come lui è il nostro salvatore e stupire e glorificare la misericordia di Dio per il suo progetto d’amore.

Ma Matteo, che ha sottolineato l’ascendenza davidica di Gesù, il suo essere “re” ci pone davanti una situazione più complessa, in cui entrano in gioco non solo gli atteggiamenti personali ma le potenze della storia.

La notte, la veglia avevano favorito l’ascolto e anche la decisione di andare a vedere, non è certo così  per chi, pur cercando la luce, si ritrova in mezzo al tumulto delle vicende umane e accanto a chi ha ben altri interessi, capace di informazioni accurate, ma per ben altri usi: occorre star saldi e non disorientarsi per ritrovare la luce nascostasi nel profondo del cuore, occorre essere decisi a non farsi spegnere del tutto.

I Magi insegnano a non  tralasciare nessun mezzo, ma anche non farsi catturare da nessuno: solo così prima o poi la luce riappare e conduce alla gioia dell’incontro.

Qui il segno non è più il bambino in fasce, ma il bambino con Maria sua madre che gli fa da trono, lei madre vergine, perché i magi sono venuti a portare doni regali, oro, incenso e mirra, anzi doni che abbracciano insieme l’essere re, sacerdote e profeta, la regalità, la divinità e la passione, un altro modo si mostrare  in sintesi la missione di questo bambino, la cui regalità non è di questo mondo, ma è per la salvezza di quanti lo accolgono.

Nell’icona della natività però i magi sono ancora in cammino, di solito uno giovane, uno adulto, uno anziano per indicare contemporaneamente non solo tutte le genti, ma anche tutte le epoche, sintesi del bisogno universale di salvezza, che ritroviamo espresso anche nelle due scene in basso, dove le figure di Adamo, di fronte a Giuseppe, e di Eva, che è pronta a lavare il bambino con Salome, paiono indicare che loro per  primi sono accorsi a vedere l’evento che sana le ferite di tutta l’umanità.

Siamo così anche noi invitati a porci davanti all’icona non con le nostre sole povertà, i nostri bisogni, i nostri dolori, ma con tutta la ricerca umana, tutto il grido di supplica che si alza dalla terra, quel grido che rende pensierosa Maria  e adorante l’esitante Giuseppe (cfr. l’atteggiamento delle mani di entrambi), con la piena fiducia che in quel Bambino già siamo stati esauditi.

 

 

Creazione e redenzione, un unico mistero d’amore

 

Nelle scene in basso a destra e sinistra dell’icona della Natività, c’è la presenza di Eva, che lava il bambino che, come ogni nato d’uomo, ha bisogno di questo servizio, e c’è quella di Adamo vestito di pelle davanti a Giuseppe: sono presenze che dicono come quanto avviene ha un valore che abbraccia tutti tempi e tutto il genere umano. Vedere alla grotta come  primi visitatori Adamo ed Eva è cogliere l’unita del mistero salvifico rappresentando i progenitori l’anelito di tutta l’umanità a ritrovare la comunione con il Signore , è sentire con Romano il Melode il Bambino esclamare: “O Madre se non avessi deciso di salvarli, non avrei abitato in te!”

Davanti ad Eva il catino per il bagno ha la forma di un fonte battesimale e la veste di pelle di Adamo è quella che il Signore ha dato quando i progenitori si sono allontananti dal paradiso e quindi ricorda il peccato: è come anticipato il senso profondo del battesimo di Gesù che è il suo mettersi tra i  peccatori perché essi scoprano in lui il Figlio di Dio e in lui la loro stessa figliolanza, la loro chiamata a lasciarsi purificare, perché il Padre possa compiacersi di loro da sempre amati.

Più di ogni altro testo illumina queste scene il testo di Luca che pone in sequenza la scena del Battesimo di Gesù e la sua genealogia (3,21-38).

In realtà in Luca  non c’è la figura del Battista accanto a Gesù,  è ricordato soltanto che Gesù  ha ricevuto il battesimo, mentre tutto il popolo veniva battezzato, dove il “tutto” lucano non è dato storico, ma teologico per far cogliere come quanto riguarda  Gesù sia radicato nella storia del suo popolo e contemporaneamente coinvolga tutta l’umanità, poi è presente solo Gesù in preghiera.

E’ l’esperienza particolare di preghiera, che Gesù fa, che diviene teofania in qualche modo visibile attraverso qualcosa che lega cielo e terra, a modo di colomba, e la realtà rivelata è che Gesù è il figlio prediletto di cui il Padre si compiace. Ma colui che comincia a essere sulla scena come Figlio di Dio, in realtà è davvero un uomo inserito nella storia della umanità attraverso il suo popolo, è figlio di Adamo  e nella linea ascendente sembra che sia in lui figlio di Dio, mentre nella verità  profonda, invisibile, è viceversa: è Adamo che in lui ridiviene il figlio di cui il Signore può rallegrarsi. Tutto il vangelo dell’infanzia di Luca culmina in questa inversione e così l’icona.

 

Di fronte ad Adamo, con la sua veste di peccato, sta Giuseppe smarrito, chiamato a custodire nel segreto e nel quotidiano questo mistero di redenzione: Giuseppe ed Adamo, i due estremi della genealogia che racchiudono secoli di eventi preparatori e di profezie e congiungono creazione e redenzione in un silenzioso profondo comunicare a cui  forse solo Silvano dell’Athos saprebbe dare voce, lui che ha cantato le “lacrime” di Adamo, per dirci il dolore dell’anima che vede che in sé non vi niente dell’amore e dell’umiltà del Bambino, ma anche per ricordarci che si deve sperare contro ogni speranza, perché il Signore vuole dare il suo Spirito a tutti suoi figli perché trovino il Regno e siano nella luce increata della santa Trinità, là con lui per sempre.

 

Giuliana Babini (2003 in Icona parola e preghiera Fraternità della luce, Lissone, Milano)

 

[1] Sottolinea questa  nostra preferenza G. Gharib, Le icone di Natale, Città nuova, p.196ss.