Il titolo è sicuramente più impegnativo di quanto tratterò, ma rende l’idea della prospettiva in cui mi metto per riflettere sulla preghiera perseverante oggi.
Cominciamo dal Vangelo di Luca, dal suo conosciutissimo cap. 11: non ci fermeremo sul Padre Nostro, già oggetto di molte riflessioni in questo anno 1999, ma sui due brevi brani (pericopi) che seguono:
v.5-8 L’amico inopportuno
v.9-13 L’efficacia della preghiera.
Fisseremo la nostra attenzione non tanto sul Padre che è senz’altro il fulcro rivelativo del brano – ogni pagina della scrittura è innanzi tutto rivelazione del Signore – ma su noi davanti a Lui.
Si parla di preghiera subito dopo la conclusione dell’episodio di Marta e Maria, conclusione in cui si afferma “si è scelta la parte buona (il testo non dice “migliore”, non fa confronti) e, subito dopo i nostri brani, Gesù spiega la sua estraneità rispetto a Beelzebùl perché scaccia i demoni “col dito di Dio”, che la tradizione stessa ci fa identificare con lo Spirito Santo. Il contesto quindi mette in rilievo questo tema della preghiera, perché l’ascolto della Parola del Signore ne è sempre la parte rilevante, così come lo Spirito ne è il frutto.
Ma vediamo cosa ci dice l’amico inopportuno:
“Poi (Gesù) aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.”
Non per sé
Chi chiede vediamo che lo fa con una insistenza stancante, ma non lo fa per sé, ma per un amico che viaggia.
E’ interessante da notare: Gesù presenta questo tipo come indicativo di un comportamento da avere, e vedete non dice: “Un tale aveva fame e si mise a chiedere con insistenza …”, no, presenta un caso in cui la richiesta è per un altro, stanco del cammino.
Vedete è già chiaro che una preghiera di domanda così è frutto di una lotta, di una lotta che è prima di tutto con se stessi, per uscire da sé, per guardare ai bisogni altrui, ai bisogni di chi cammina, di chi sta in questo mondo … non si tratta del proprio problema immediato, si tratta di accoglienza, dell’urgenza di essere uomini tra gli uomini.
Certo noi saremmo capaci di pensare che questo tipo lo fa per difendere la propria immagine di ospite …. Ma non è l’ora e lo sa bene (le case erano tali per cui si dormiva insieme e senza che la cucina fosse distinta dal luogo dove si dormiva!). Comunque quando la preghiera tende ad essere “per gli altri” già è sulla via di essere adesione alla volontà di Dio per noi, già diventa efficace nel trasformarci dentro, efficace per la salvezza di tutti …
Il Signore non ha bisogno delle nostre preghiere, ma esse rendono noi capaci di accogliere i doni del Signore.
“La preghiera giunge al suo grado di purezza autentica quando in essa dimentichi totalmente te stesso, quando cioè smetti deliberatamente di interessarti di te stesso e preferisci occuparti unicamente dei bisogni, delle ansie e della salvezza degli altri….. L’oblio di se stesso comincia con uno sforzo della volontà. Ma quando vi perseveri con sincerità dinanzi a Dio, Dio te lo concede come dono gratuito. E’ con spontaneità, allora, che non ricercherai più il tuo interesse, ma penserai piuttosto a quello degli altri (cf. Fil 2,4). Se nella preghiera trascuri deliberatamente i tuoi bisogni e trovi la gioia unicamente nel domandare, nel supplicare e nel prodigarti a vantaggio degli altri, allora Dio stesso comincerà a occuparsi di te e a farsi carico di tutta la tua vita….. Se hai conosciuto e amato Dio, allora sei responsabile dinanzi a Dio del fratello il cui cuore non si è ancora aperto a Dio. Attraverso la preghiera di coloro che lo amano e che gli sono vicini Dio raggiunge i peccatori che sono sperduti lontano da lui….. mediante la preghiera puoi avvicinarti segretamente al loro cuore .. e gemere identificandoti con loro, come se fossi tu stesso peccatore e sbandato… Dio li ode tramite te…”, così si esprime Matta el Meskin, maestro spirituale a Scete in Egitto, dove è forte il radicamento nella tradizione dei Padri.[1]
Allora noi non abbiamo bisogno che si preghi per noi?
Certo che ne abbiamo bisogno, siamo tutti peccatori e provati, bisognosi che si risvegli il nostro uomo interiore, ma la preghiera è tanto più efficace quando è informata dalla carità, è dell’uno per l’altro …
L’urgenza
Inoltre il brano ci dice che la nostra preghiera dovrebbe avere il carattere dell’urgenza, come di chi ha da sfamare un viandante che sta venendo meno nel cammino … e qui si presuppone ancora fatica. E’ già una lotta decidere di pregare, figuriamoci farlo come cosa prioritaria e “non per star bene noi” ( possiamo ridurre sempre il pregare a rituale rassicurante, pacificante …), ma perché urge pregare per questo nostro mondo, per la comunità – che c’è o non c’è vicino a noi -, per quella o quell’altra persona , per tutte le pene che le ‘notizie’ ci fanno intravedere.
Quando poi nel testo si dice: “anche se non si alzerà a darglieli per amicizia”, noi siamo portati a pensare subito che è l’amico importunato che potrebbe non avere sentimenti di amicizia, ma non è detto, dato che lui in fondo sta ad indicare il Signore: quello che può non essere poi tanto amico potrebbe essere proprio chi chiede, perché l’urgenza fa chiedere e basta, senza badare al grado di amicizia; nell’urgenza è l’insistenza che conta innanzi tutto, non il grado di amicizia …
In fondo anche Abramo, l’amico del Signore, intercedendo, si ferma a 10 e Sodoma non è salvata. Certo i grandi amici hanno le porte aperte ma se insistono!
Non è la santità che conta ma l’insistenza … e questo ci deve consolare e spronare e, nello stesso tempo, non ci giustifica, se non preghiamo: non abbiamo scuse!
Veramente noi oggi preghiamo con questa urgenza, con questa insistenza perché non manchi a ciascun credente, pellegrino e straniero in questo mondo, il pane necessario (il ‘tre’ era la razione giornaliera) per il cammino?
Quali urgenze portiamo nel cuore?
Sappiamo trasformare le nostre lamentele sulle vicende umane in suppliche ardenti? Quanto raramente hanno questo carattere le preghiere dei fedeli nell’eucarestia, nell’ufficio …. È vero forse portiamo nel cuore, ma perché questa impotenza a far emergere quanto renderebbe significativo il credere e il pregare?
Un esempio femminile
Spesso nei Vangeli accanto ad un esempio al maschile ve ne è un al femminile, Anche in questo caso, infatti, se si va al cap 18,1-8 troviamo “la vedova inopportuna”:
– Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi:
C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno.
In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”. E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» -.
All’accostamento dei due testi induce anche una espressione greca che troviamo sia in 11,7 che in 18,5 per la quale compare quel inopportuno/a nei due titoletti della BJ; l’espressione significa procurare fatica, pena affanno … quanto è in ballo per rispondere ad una richiesta in un momento inopportuno, insolito; il sostantivo che compare in questa espressione però in testi dei sinottici e più spesso in Paolo indica la pena del vivere in senso generico, quella del nostro essere al mondo (cfr. Mt 11,28 Voi che penate (siete affaticati)). In 18,6 dove compare “importunarmi” nella nostra traduzione c’è invece un verbo diverso, figurato, che alla lettera indica “pestare sotto gli occhi”, quindi romper la testa: comunque l’idea comune è chiara.
Più ancora che nel brano precedente, può sembrare che la vedova chieda per sé, ma Gesù si serve di questo esempio, perché sia più afferrabile l’atteggiamento di fondo con cui fare le nostre richieste , ma poi passa immediatamente a quel “gridare giorno e notte degli eletti” che non è certo per un qualche interesse personale, ma è relativo alla venuta del Regno e il Regno è per tutti!
Coinvolti in profondità
Gesù fa questo esempio di un giudice iniquo che pare poco consono alla figura del Padre, ancor meno dell’amico che fa fatica a dare i pani perché ha delle buone scuse: perché? Non credo sia principalmente per far risaltare il Padre per contrasto, ma per esigere a noi chiedenti il massimo coinvolgimento, quello appunto di uno costretto a disturbare, quello di una vedova che non ha nessun potere in proprio, che è vuota di tutto tranne che della sua urgenza. La vedova nello statuto antico era figura massima di privazione, specie se senza figli maschi, era figura di povertà somma, una che non ha nessuno che la difenda in assenza dello sposo, per cui mette tutte le sue attese perfino in un giudice iniquo, mentre noi non sappiamo mettere tutte le attese nel Padre nostro celeste, nel ritorno del Signore[2]!
Certo l’insistenza deve partire da un cuore che riconosce la propria povertà e questo Luca lo sottolinea subito dopo con la parabola del fariseo e pubblicano.
Siamo noi così coinvolti nel chiedere al Padre, nell’attendere lo Sposo che sta per tornare o lasciamo che venga e non trovi più la fede sulla terra, secondo l’interrogativo che Luca stesso pone?
La preghiera degli eletti (chiamati, scelti, messi da parte per, e tutto ciò che vi è dentro a questa parola – elezione non come privilegio ma come servizio -), molti o pochi che siano, è in funzione del conservare la fede su questa terra, anche se nella storia si fa mezzanotte, anche se occorre gridare giorno e notte, non solo perché non prevalga l’istinto al male che l’uomo ha dentro di sé, ma perché oggi, sempre di più, anche la ragione è messa al servizio di un male sempre più sofisticato e anche la scoperta più utile diventa minaccia alla dignità di figlio di ciascun uomo[3].
La preghiera deve davvero portare il mistero dell’iniquità su di sé e tutti oggi lo tocchiamo con mano nella storia, attorno a noi e dentro di noi …
La preghiera è farsi carico, sempre cominciando, però, dal “Signore abbi pietà di me peccatore”: “Signore salva gli uomini” – pregava Silvano dell’Athos- come un tutt’uno col “Signore pietà”, perché coglieva in profondità che “se il Signore salva me, chi può mai condannare?”
Sentiamo questo legame con gli altri dentro di noi?
Da quale profondità nasce la nostra preghiera? Cosa scava dentro di noi?
Ci sono dentro di noi viscere di misericordia? Quei sentimenti del Signore, dei quali la lettera agli Ebrei dice: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà” (5,7), dove l’esaudimento non è essere liberato dalla morte ma la vittoria sulla morte per tutti noi?
Non si tratta di essere lagnosi, di lamentarsi di tutto e di tutti, anzi! Si tratta di avere la Speranza teologale, quella fondata non negli sforzi umani, ma nel dono di grazia ricevuto e atteso, nella vittoria ultima del bene, perché più in profondità si scende più si incontra il Signore e si accoglie il mistero della storia come in un grembo (le viscere materne) perché i dolori siano quelli di un parto.
Anthony Bloom, un altro maestro della nostra epoca dice:
“ … è molto difficile andare verso la propria interiorità. Noi tutti diamo per scontato di essere profondi e che più in profondità andiamo più sarà piacevole. Non è proprio semplice come sembra. Davvero, quando siamo giunti a una certa profondità tutto va bene, ma per strada somiglia molto alle storie della ricerca del Graal. Ci sono tutti i tipi di mostri da incontrare sul cammino, che non sono demoni e nemmeno il nostro prossimo, ma semplicemente noi stessi. Tutto ciò lo rende più spiacevole e molto più difficile da fare. Generalmente sono l’avidità, la paura e la curiosità a renderci apparentemente vivi .… Se osservi attentamente la tua vita, scoprirai abbastanza presto che quasi mai viviamo dall’interno verso l’esterno; al contrario rispondiamo all’incitamento, allo stimolo esterno. In altre parole viviamo per riflesso, per reazione… Raramente riusciamo a vivere semplicemente per mezzo della profondità e della ricchezza che presumiamo ci sia in noi stessi”[4].
Appena stiamo con noi stessi, aggiunge, arriva la noia che poi diventa angoscia, di fronte alla quale dobbiamo arrivare a dire :“No, riuscirò a resisterle, e giungerò al punto nel quale l’angoscia stessa mi spingerà a fare ciò che la buona volontà non è in grado di fare” e allora “viene il tempo, un tempo di disperazione, di tormento e di terrore, che ci spinge a volgerci sempre più all’interno di noi stessi per gridare: – Signore pietà! Sono pentito, Signore salvami!- …A questo punto abbiamo raggiunto il livello di profondità nel quale si comincia ad essere in grado di bussare a una porta …. C è un livello di disperazione che è legato a una speranza totale, perfetta … Molto spesso non troviamo un’intensità sufficiente nella nostra preghiera, una convinzione solida, una fede incrollabile, perché la disperazione non è abbastanza profonda….[5]
La profondità è uno scavo della parola dentro di noi che tocca le giunture e porta alla compunzione e al lutto: lì solo davvero si prega per tutti.[6]
Isacco il Siro diceva: “Che cos’è un cuore puro? – E’ un cuore che brucia d’amore per la creazione intera, per gli uomini, gli animali, le creature e anche i demoni e per tutto ciò che esiste. Quest’uomo non cessa di pregare anche per gli animali, per i nemici della verità, per quelli che lo perseguitano, affinché siano conservati e pacificati … Egli prega mosso da grande compassione versata senza misura nel suo cuore, attraverso la quale si assimila a Dio….”[7].
Ciò che fa il cristiano – diceva D. Bonhoeffer – è “il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo”.
La qualità della preghiera
Se la nostra preghiera sale dal profondo siamo in grado di accogliere le parole che ancora ci dice Luca:
“Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”(11,9-13).
Accanto al chiedere c’è il cercare, il bussare come un crescendo nella fatica della richiesta e già questo ci dice l’impegno della supplica e dell’intercedere.
Vi è poi l’esempio di un padre: attraverso delle contrapposizioni – da una parte abbiamo pane – pesce – uovo, dall’altra pietra – serpe – scorpione, elementi che rimandano al nutrire, al curare (dal pesce si prendevano elementi curativi) a ciò che porta in sé la vita e ai loro opposti, mancanza di cibo, veleno e la morte – si fa notare se il suo atteggiamento nei riguardi del figlio è di vita o di morte.
Se un padre terreno, anche cattivo come noi, vuole ciò che è vita per il figlio, tanto più il Padre celeste …
Ma anche questa volta dobbiamo notare che l’attenzione si sposta: che il Dio dei Padri sia amante della vita era chiaro, qui si va oltre “darà lo Spirito Santo[9] a coloro che glielo chiedono”, cioè la sua stessa potenza di vita, la comunione con lui, che è principio di vita eterna, anticipo del Regno.
Matteo nel passo parallelo dice “cose buone” e si ferma quindi a far vedere la bontà del Padre, ma Luca è come dicesse: ci vuole chi chiede questo! è tempo che si chieda lo Spirito, potenza trasfigurante!
“…lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8,26-27)[10].
Certo il Padre sa ciò di cui abbiamo bisogno: se un amico, un giudice iniquo, un padre vanno incontro alle richieste … figuriamoci il Padre che ama tutte le cose che ha creato[11]! Ma la preghiera resta necessaria perché noi da essa possiamo essere trasfigurati, resi docili ai piani del Signore, aperti ai suoi doni.
Ascoltiamo ancora Matta El Meskin:
“I doni della vita cristiana ‑ sia d’ordine generale, come la nuova nascita, la redenzione che cancella i peccati, la giustificazione per la grazia e la santificazione per il sangue di Cristo… sia di ordine personale, come i carismi d’amore, d’umiltà, di pietà, di ardore spirituale nella costante intimità del Signore ‑, tutti questi doni, possono dispiegarsi con potenza ed efficacia solo per mezzo della preghiera. E’ per mezzo della preghiera che si dispiega l’efficacia della natura di Cristo in noi. E’ per mezzo della preghiera che la forza della sua vita e della sua morte penetra i nostri atti e i nostri comportamenti.
E’ per mezzo della preghiera che i nostri pensieri e le nostre parole, perfino il nostro silenzio e la nostra calma, possono esalare “il buon profumo di Cristo” (2Cor 2,15).
Solo nella vita di preghiera possono manifestarsi l’efficacia della redenzione, la forza della salvezza, la vittoria sul peccato e la testimonianza viva della nuova nascita.” [12]
C’è una qualità della preghiera e la si coglie guardando al da dove sorge, e che cosa chiede.
Nel nostro cuore vi è di tutto e da lì vengono le opere malvagie, per cui, se non si purifica il cuore, le nostre richieste saranno sbagliate.
C’è una lotta perché il nostro pregare si faccia adorazione in spirito e verità, si faccia intercessione come un sentirsi in mezzo alle cose, un portarle su di sé, dentro di sé , con sé. C’è una lotta perché la nostra preghiera diventi un rimettere a lui noi stessi e tutte le cose, senza la pretesa di capire, e sempre allargando il cuore a ciò che capita vicino e lontano da noi, sia evento pesante o luminoso. C’è una fatica da sostenere perché la nostra preghiera si faccia ricordo costante del Signore.
Non si tratta di particolari preghiere, ma di un atteggiamento di vita che è esso stesso preghiera, pur dovendo poi essere alimentato da momenti particolari di preghiera, secondo vie e modalità diverse per ognuno, e da un costante sforzo di sintonizzare vita e fede.
Occorre desiderare questa meta!
A volte grava sul cuore una ferita, una difficoltà propria di qualcuno che ci è caro; va considerato una grazia se il Signore ci fa in quel momento giungere una notizia riguardante qualcun altro chiamato a portare un peso ben più grande o viceversa a vivere un momento luminoso: lì si misura quale cuore ho poi nella preghiera, se nel dolore mi ha fatto cogliere nella pace una gioia di altri o viceversa nella gioia un dolore, in poche parole se non misuro più le cose su di me.
Nei salmi ringraziamento e lamento si mescolano proprio per educare a vivere in sintonia con l’universo intero e a non dimenticare mai l’altra parte, quella che non vivo in quel momento: questo esige una lotta che solo, lentamente, col tempo può lasciare il posto all’abbandono:
“nella gioia o nel dolore,
negli eventi luminosi e nelle tragedie del mio tempo
comunque sono tuo Signore e di te mi fido ..
busso nella notte e aspetto ….
Prima o poi il sole sorgerà
e capirò che tu mi stai rispondendo da sempre”.
Ancora una immagine femminile
Il Maestro dell’ordine dei Domenicani P. Thimoty Radcliffe ci ha offerto un testo bello e simpatico, intitolato “L’orso e la monaca”[13], ove l’orso è il progresso, l’economia, il nostro mondo divoratore, con tutti i suoi vuoti e la monaca, che lui immagina mentre canta nelle tenebre presso il cero pasquale, è la vita consacrata, ma potremmo dire semplicemente il vivere per il regno o meglio ancora la preghiera, perché, nella vita credente, è la preghiera che ci ricorda, ci fa attendere, ci anticipa la meta del Regno. E non aveva presente una romantica veglia pasquale con tale immagine, ma gli eventi, i luoghi tenebrosi di questo mondo: e di fatto ne sottolinea l’aspetto profetico, la fiducia in un futuro che irromperà, citando Abacuc in un testo che rende in pieno il movimento interiore fondamentale della vera preghiera che non nega la realtà, ma vede oltre e si fa speranza:
“Sospiro al giorno dell’angoscia che verrà contro il popolo che ci opprime. Il fico infatti non germoglierà, nessun prodotto daranno le viti, cesserà il raccolto dell’olivo, i campi non daranno più cibo, i greggi spariranno dagli ovili e le stalle rimarranno senza buoi. Ma io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore. Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle alture mi fa camminare.” (3,16-19).
Senza la preghiera vissuta con uno spessore crescente è impossibile vivere serenamente da stranieri e pellegrini in questo mondo, arrivare a lodare nelle circostanze difficili … Come affidarsi, in mezzo a segni sempre e solo deficitari e anticipi non senza contraddizione, quali quelli che ci sono dati qui e ora, se non attendiamo il Regno?
“Cercate piuttosto il Regno di Dio e queste cose (cosa mangiare e cosa bere) vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,31): vale anche per la preghiera non solo per l’affannarsi.
Lotta e affidamento, abbandono, rendimento di grazie procedono insieme: la lotta sola sfinirebbe e porterebbe alla disperazione; l’affidamento senza lotta è ricercare la facilità, la superficialità, la scappatoia là dove è invece necessario il pieno coinvolgimento.
Quante figure, bibliche e no, potremmo ricordare a commento di quanto detto!
Per ora chiudiamo con una breve nota sulla figura, non molto conosciuta, di Giovanni Maometto[14].
Abd el Jalil si convertì studiando il cristianesimo per combatterlo, fu battezzato ed ebbe come padrino Massignon, mentre contemporaneamente in Marocco si faceva il suo funerale per volere del padre che, per questo suo gesto, ormai lo considerava morto. Il Papa Pio XI lo aveva liberato dalle sue esitazioni a farsi cristiano, dicendogli che poteva amare Maometto, perché il vangelo dice di amare tutti, perfino i nemici, e lo aveva autorizzato a portarne il nome: e così poi nel ‘29 aveva iniziato il suo noviziato dai francescani …. Porterà però sempre il peso di essere rifiutato dai suoi e considerato con sospetto dai credenti e anche dai suoi confratelli.
Quando nel ‘58 il principe ereditario del Marocco si reca a Firenze al ‘Colloquio del mediterraneo’ voluto da G. La Pira, introduce l’intervento di Giovanni Maometto e lo invita a rientrare almeno una volta in Marocco sotto la sua protezione, cosa che fra Giovanni-Maometto fa, ma il viaggio riaprirà tutte le ferite qua e là …. Lui resta “segno di contraddizione” sia per i suoi fratelli mussulmani che per quelli cristiani.
Aveva ringraziato il principe per tale offerta concludendo, ed è testimonianza per noi:
“Io sono più un uomo di preghiera che di sapere o di azione; io amo pensare a tutte le creature, a tutti gli esseri umani come avvolti dalla presenza dell’Onnipotente. Per me il dovere di parlare a Dio degli uomini è più urgente di quello di parlare agli uomini di Dio. In questo affidamento a Dio, io mi sento in compagnia spirituale di altri muslim, come Francesco d’Assisi.”
La preghiera: lotta e affidamento
(2)
Quando la preghiera non è solo ricerca di consolazione, ma lotta, possiamo dire che essa si fa carne nella storia delle persone che la vivono, perché venga rivelato, attraverso segni, anche piccoli, che il mondo intero è benedetto dal Signore, che il male non trionfa su tutto e che, anche se spesso nel mistero, il Signore custodisce coloro che gli si affidano.
Ci fermiamo a cogliere questo in alcune figure di donna, cominciando da questo nostro secolo, perché, a volte, il vissuto più vicino a noi ci aiuta a penetrare in certe pagine bibliche: è vero che dobbiamo imparare a leggere la nostra vita con la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero che dobbiamo leggere la Sacra Scrittura con la nostra vita guardata in profondità, solo così cresce la nostra comprensione di essa.
Etty Hillesum
Tutto (Diario[15] e Lettere) di Etty Hillesum può essere letto in questa chiave: lei voleva essere, di fronte alla barbarie, “il cuore pensante della baracca”, noi possiamo dire che fu il “cuore orante”, proprio in quella dimensione di lotta e affidamento di cui stiamo parlando.
Diceva: “Non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa”, e questo vale anche per la preghiera vera, non è tanto essa che conta quanto ciò che grazie ad essa si diventa nella vita: per questo cito liberamente Etty, sicura che ciascuno/a puòcoglierne il legame con il nostro tema, senza bisogno di commenti. Sono tutte riflessioni che scriveva mentre cresceva in lei la consapevolezza di quanto stava accadendo negli anni 1941-1943.
Quando prego non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità chiamo Dio.
Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo.
Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò d’abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e ad esserti fedele e non ti caccerò dal mio territorio.
E ora mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inverno. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che si avvicina fuori, ma da quello che si innalza dentro. E’ solo un inizio, me ne rendo conto. Ma non è più un inizio vacillante, ha già delle basi.
Per me io so questo: dobbiamo abbandonare le nostre preoccupazioni per pensare agli altri, che amiamo. Voglio dir questo: si deve tenere a disposizione di chiunque si incontri per caso sul nostro sentiero, e che ne abbia bisogno, tutta la forza, l’amore e la fiducia in Dio che abbiamo in noi stessi, e che ultimamente vanno crescendo in modo così meraviglioso in me.
Amo così tanto gli uomini perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio.
Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.
E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio.
Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò essere anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci illusioni eroiche.
Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu, o Dio, non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci[16], ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.
Non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliata dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi ci sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle più vane fantasie. Ma anche questa è poca cosa, se paragonata a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente.
E già al campo scriveva: La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio….. lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza… questa è la mia preghiera….
Non si tratta di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva.
Se Etty si fosse salvata, avrebbe voluto con il suo popolo offrire, diceva: un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione.
Mi piace pensare che in fondo autori come A. J. Heschel lo hanno in un certo senso fatto. Leggendo in Il canto della libertà il capitoletto “La preghiera come disciplina”[17] non si può non cogliere la sintonia con la esperienza di Etty; ne citiamo solo alcune espressioni, anche se l’intero capitolo è attinente al nostro tema, anzi lo esprimono molto meglio di quanto faccia questo mio articolo:
Se non ci fosse la certezza che Dio ascolta il nostro pianto, chi potrebbe resistere a tanta miseria, a così grande insensibilità? ….. La preghiera è condensazione dell’anima …. Adorare il Signore significa dimenticare se stessi … Quello che avviene in un momento di preghiera può essere descritto come lo spostamento del centro dell’esistenza: dalla coscienza di sé alla resa di sé … A costituire la preghiera è il grido di angoscia che diventa percezione della misericordia di Dio … Pregare significa riportare Dio nel mondo …
La figlia di Iefte
Dopo questi spunti che non sono in linguaggio biblico, ma semplicemente, profondamente umano, credo che ci risulterà più facile accostare quel personaggio minore della Sacra Scrittura che è la figlia di Iefte e riscoprirne la luminosità per noi.
Siamo nel libro dei Giudici, un libro poco letto già a riguardo dei suoi personaggi più famosi come Sansone o Gedeone, e si tratta della figura minore del giudice Iefte, così facile da squalificare per il suo voto di fare un sacrificio umano, senza neppure leggere il testo, che troviamo in Giudici 10,6-12,7, e senza chiedersi che cosa il Signore voglia rivelarci in una pagina di questo tipo[18]. Ancora una volta siamo pronti a dimenticare che il Signore si serve degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, dei peccatori per le sue imprese e le sue rivelazioni.
Iefte è un marginale, perché, figlio di una prostituta e scacciato dai propri fratelli, è diventato capo di una banda, come poi farà anche Davide, ma viene richiamato nel pericolo, perché uomo forte e valoroso. E’ un marginale nella vita, ma anche nelle interpretazioni, perché già nei commenti ebraici è considerato un rozzo, un prepotente, un senza scrupoli, pronto a tutto per il potere e ….tutto quanto di negativo si può dire, ma i testi biblici non lo dicono, anzi! Certo Iefte esige che coloro che lo hanno odiato e scacciato e ora lo cercano, ribadiscano che vale anche per lui la promessa che “chi comincerà a combattere contro gli Ammoniti sarà il capo di tutti gli abitanti di Galaad” (cfr. 10,18): non è sete di potere, l’iniziativa non è sua, vi è al massimo il desiderio di essere reintegrato nel suo popolo, di riscattare con il suo valore l’ingiustizia subita e di non subirne un’altra!
E Iefte mostra subito che sa essere un buon capo, perché, per prima cosa, cerca di evitare una strage inutile e tenta la via della mediazione, rileggendo la storia come progetto del Signore, con quegli Ammoniti che sono scesi in capo contro Israele, perché il popolo, ancora una volta, ha abbandonato il suo Signore e servito i Baal, anche se poi nel pericolo si è rivolto di nuovo al Signore.
Il re degli Ammoniti però non ascolta e quindi Iefte è costretto alla guerra e qui inizia l’episodio di cui cerchiamo di cogliere il senso profondo:
“Allora lo spirito del Signore venne su Iefte ed egli attraversò Gàlaad e Manàsse, passò a Mizpa di Gàlaad e da Mizpa di Gàlaad raggiunse gli Ammoniti. Iefte fece voto al Signore e disse: «Se tu mi metti nelle mani gli Ammoniti, la persona che uscirà per prima dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io l’offrirò in olocausto».
Quindi Iefte raggiunse gli Ammoniti per combatterli e il Signore glieli mise nelle mani. Egli li sconfisse da Aroer fin verso Minnit, prendendo loro venti città, e fino ad Abel-Cheramin. Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti.
Poi Iefte tornò a Mizpa, verso casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia, con timpani e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli, né altre figlie. Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: «Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi». Essa gli disse: «Padre mio, se hai dato parola al Signore, fà di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici».
Poi disse al padre: «Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne».
Egli le rispose: «Va’!», e la lasciò andare per due mesi. Essa se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli fece di lei quello che aveva promesso con voto. Essa non aveva conosciuto uomo; di qui venne in Israele questa usanza: ogni anno le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni.” (Gdc 11,29-40).
Non si può non sottolineare che Iefte fa il voto subito dopo il versetto, in cui si dice “Allora o Spirito del Signore discese su Iefte”, espressione, che possiamo dire tecnica , per indicare che il Signore si serve di una persona per una missione[19]. Non è un empio che fa simile voto, ma un uomo con lo Spirito del Signore. E se il contenuto del voto urta la nostra sensibilità, chiediamoci se non è vero che la nostra società non continua a sacrificare tanti suoi giovani figli a ben altri idoli.
Iefte fa un voto per la vittoria a vantaggio del suo popolo, offre a suo modo una primizia (la persona che per prima…), offre qualcosa di suo, lasciando inoltre al Signore la scelta; certo forse poteva pensare ad uno schiavo o meglio ad una sua donna, perché di solito erano le donne che andavano incontro al vincitore[20] e sappiamo che esse erano considerate “proprietà”.
Resta che Iefte non pensa alla vittoria come proprio guadagno, si pone nell’ottica disinteressata delle guerre del Signore che riempiono il libro di Giosuè, in cui persone e cose del vincitore sono votate al Signore e, se ci ricordiamo che allora si viveva di razzie, capiamo che non era una cosa facile simile disinteresse[21]! E’ molto più che il voto di povertà, è rinunciare alla fonti delle sussistenza, è come se noi sapessimo operare sempre in gratuità …. Iefte con tale voto è come se si assumesse l’impegno di fare la guerra senza interesse personale, ma solo per il popolo: se guardiamo al dinamismo interiore che lo muove troviamo spossesso e , dopo, fedeltà alla parola data.
Israele non ama molto che l’uomo faccia un voto di sua iniziativa, ma ha chiaro che, una volta che lo abbia fatto, non può che mantenerlo e che la persona o cosa votata al Signore non può essere riscattata (cfr. Lv 27,28-29) e questo pur nella condanna dei sacrifici umani[22].
Ed ecco che, quando a lui, vincitore, esce incontro la figlia con timpani e danze, la figlia unica, riaffiora più cocente l’infelicità che ha toccato la sua vita … Il Signore ha preso sul serio, – troppo sul serio siamo tentati di dire noi, ma è così anche nella nostra vita -, la sua promessa e si è scelto la cosa più preziosa, la persona che più gli stava a cuore e niente viene a fermare la mano di Iefte, né il Signore stesso come avviene nel sacrificio di Isacco (Gn 22)[23], né il popolo come quando Saul vuol punire Gionata, che, senza saperlo, ha violato un suo ordine (1Sam 14): la figlia di Iefte non è salvata, ed è già il mistero del Figlio dell’uomo[24] che non sarà salvato, è il mistero che si ripete lungo la storia nella sofferenza e nella morte di tanti innocenti, uomini e donne, che noi siamo impotenti ad arginare, ma che sono tutt’altro che insignificanti per la nostra salvezza.
un sì consapevole
Lo sguardo al padre era necessario per capire la figlia: chi si ferma a un giudizio di brutalità su Iefte infatti, poi, dimentica di parlare della figlia[25].
Essa non ha nome, si sa solo che è unica e di fatto lo è proprio nell’adesione alla promessa del padre. Il suo “sì” è un sì consapevole: “Padre mio se hai dato parola al Signore, fa’ di me quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici”. E’ consapevole che la sua vita è il prezzo della vittoria, anche se non ha combattuto sul campo, e sente sacra la parola del padre, ma, con la sua richiesta – “lasciami libera per due mesi perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne” -, rivendica una cosa: il suo sacrificio deve essere libero, non vuole fare la vittima passiva, chiede il tempo per assumere in pieno la sua storia e tornare in libera adesione al volere del padre.
Non conoscere uomo , non avere figli, questo era il grande dolore di una donna in Israele, eppure lei non chiede dilazione per poter avere un figlio, né un tempo di proprio piacere con un uomo … sarebbe stata capita, anche i soldati appena sposati non andavano in guerra prima di avere un figlio: no, lei chiede un tempo per piangere sui monti, luoghi, da sempre, per l’ incontro con il Signore. Come non considerare queste lacrime preghiera, offerta, dono della vita ‘non compiuta’, quale è la verginità, per il padre e il suo popolo? Anche di Gesù è detto: “ Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì…”[26] e sappiamo bene che fu esaudito non perché salvato dalla morte, ma perché con essa salvò noi … fu esaudita la sua volontà di adesione al Padre!
Il pianto della figlia di Iefte non è ripiegamento vittimistico, non è ricerca di fuga, è “esercizio spirituale”, lotta, per affidarsi, per prepararsi alla morte, – di cui la verginità è solo un anticipo[27]-, consapevolmente vissuta come figlia: si dice nel testo, “tornò dal Padre”, non che ce la trascinarono.
Le parole della Figlia di Iefte rimandano a Maria, il suo vissuto al Figlio unico, prediletto, del Padre; il nome di Iefte dicono che significa “Egli apre”… non si apre con questo episodio uno spiraglio sul mistero della nostra redenzione? Non si apre qui quel cammino che porta noi a capire che la vera offerta gradita al Signore è quella di se stessi e del proprio vissuto, in umiltà e mitezza, là dove ognuno/a e collocato/a?
Il testo ebraico non chiude l’episodio con le fanciulle che vanno a piangere[28] la figlia di Iefte, dice che vanno a “cantarla” ed è bello così, perché è la celebrazione dell’offerta della vita per la salvezza degli altri, che in fondo, ogni credente è chiamato a fare dal momento che il Signore Dio Padre ha mantenuto la sua promessa di salvezza col sacrificio del Figlio prediletto.
Certo il Signore Gesù con la sua croce ha abolito tutti i sacrifici cruenti, ma ci è chiesto, come vertice di ogni preghiera, di essere in lui offerta viva[29], facendo nostra ogni giorno una supplica come questa:
Signore, non so cosa domandarti.
Tu però, conosci le mie necessità
perché tu mi ami più di me stesso.
Concedi a me, tuo servo, quanto non so chiederti.
Io non oso domandarti né croci né consolazioni.
Rimango solo in veglia davanti a te:
tu vedi ciò che ignoro.
Agisci secondo la tua misericordia!
Se vuoi, colpiscimi e guariscimi, atterrami e rialzami.
lo continuerò ad adorare la tua volontà
e davanti a te starò in silenzio.
A te mi consegno interamente:
non ho desideri, voglio solo che si compia il tuo volere.
Insegnami a pregare, anzi, prega tu stesso in me! (Filarete di Mosca)
ESTER
In questa prospettiva di vita offerta e affidata al Signore che governa il mondo e la storia possono essere lette le vicende di Ester e Giuditta, che, per l’azione del Signore nella loro adesione, sono a lieto fine per loro stesse e il loro popolo.
Il libro di Ester, nella redazione ebraica più antica, è molto caro al popolo, è legato alla festa di Purim e a quella capacità divina di capovolgere le sorti che dà speranza nei momenti più oscuri della storia. Noi siamo abituati a leggere, nella Bibbia-CEI, un testo che unisce tale redazione con quella greca più tarda: si possono però leggere le due redazioni separate nelle edizioni della Bibbia Abu o Tob e, per il nostro tema, questo è importante. Nel testo ebraico infatti non si parla di preghiera, né si cita il Signore, egli agisce nella storia, non c’è bisogno di nominarlo: si parla invece di digiuno. Anche Giuditta, all’inizio, è presentata come donna che digiuna: è lo stile di vita che conta, la preghiera può restare sottintesa, perché se è staccata dalla vita non arriva all’alto dei cieli, si ferma al tetto; il digiuno indica l’avere la giusta gerarchia delle cose e quindi il mettere il Signore al primo posto; il digiuno è decentrarsi, far digiuno di se stessi, uscire dai propri bisogni e guardarsi attorno, sentirsi in cammino con tutti gli altri uomini. Allora, se si fa il vuoto con il digiuno, il grido al Signore è grido che dice: io ho solo te come mia roccia, come punto forte della mia vita.
Quando però gli ebrei vengono a trovarsi sempre più mescolati nel mondo greco-ellenistico, sentono il bisogno di esplicitare la preghiera: non sarebbe così chiaro lasciarla sottintesa, perché il mondo greco è un mondo scisso, il corpo va da una parte e l’anima dall’altra, ed è un mondo in cui non manca il formalismo religioso: ed ecco che nella redazione greca di Ester, tra le aggiunte, compaiono le lunghe preghiere di Mardocheo e di Ester.
Ester è una giovane ebrea, nipote di Mardocheo che spicca per bellezza e simpatia tra le ragazze portate al Re che Assuero[30], dopo che ha ripudiato la Regina Vasti per disobbedienza e il Re la sceglie come Regina. Ma alla corte non mancano gli intrighi e vi è lo scontro tra Mardocheo e Aman che, in quel momento, è al vertice del potere e perciò reagisce al fatto che Mardocheo non gli rende onore, col decretare la persecuzione di tutti gli ebrei. La regina Ester viene richiamata da Mardocheo a prendersi la sua responsabilità per intercedere per il suo popolo: per farlo essa deve sfidare il decreto del re che ordinava di non presentarsi al suo cospetto, se non chiamati, pena la morte. Ed essa lo farà, usando le arti femminili della bellezza e della reazione emotiva, ma prima digiuna e prega.
Se leggiamo le due redazioni, ci rendiamo conto che la preghiera, nella storia di Ester, corrisponde un po’ a una complicazione dei personaggi: non è soltanto supplica al Signore, ma implica un bisogno quasi di spiegare le cose a Dio, un dargli la propria interpretazione dei fatti ( guarda che ho ragione, quindi mi devi difendere!) e questo non è certo la preghiera nella sua genuina semplicità!
Nel testo greco la figura principale diventa Mardocheo (il maschilismo è maggiore nel contesto greco-romano che in quello ebraico) e la sua preghiera è molto diversa da quella di Ester e questa constatazione tocca un tema su cui non si è ancora abbastanza riflettuto. E’ veramente proprio vero che uomini e donne pregano allo stesso modo? Quanto di diversità o di uguaglianza è legato alla modalità dell’essere uomo o donna, quanto ai ruoli avuti nella storia? Nell’antichità la differenza uomo/donna era in fondo una connotazione ancor più di ruolo che sessuale, perché i ruoli erano talmente diversificati che collocavano anche in distinte sfere, pubblico[31] e privato, che incidevano nel modo di essere, uomo o donna, che comunque segna una diversificazione sotto tutti i cieli e in ogni epoca. Avere riferimenti uguali è bello, ma non è impoverente, se una diversa modalità dell’essere non trova espressione in un campo così personale quale la preghiera[32]? Interrogarsi forse è permettere a diverse modalità di fiorire in creatività!
La preghiera di Mardocheo è una professione di fede quasi impersonale, se non fosse per quel riferimento di autogiustificazione,“ avrei baciato anche la pianta dei suoi piedi per la salvezza di Israele”, ma si trattava della Gloria del Signore che solo deve essere adorato. C’è un atto di fede che mette insieme, come poi farà anche Ester, vicenda personale, salvezza del popolo e gloria del Signore, tre cose che mai devono essere separate!</5h>
La preghiera di Ester
La preghiera di Ester aggiunge anche qualcos’altro e prima di tutto quell’atteggiamento così vero e vitale del popolo ebraico che, di fronte al nemico, non dice solo “ liberaci da esso”, ma subito afferma “noi abbiamo peccato”, considerando il nemico come correzione[33], come un richiamo alla fede piena nel solo Signore che, nel momento del benessere, il popolo ha smarrito dietro ad altri idoli. E poi la sua preghiera si fa molto molto personale e, mentre prega, alterna il singolare al plurale; nello stesso tempo emerge dal popolo e nello stesso tempo si immerge nel popolo: emerge, quando si tratta del compito che è specificatamente suo di presentarsi al Re, per il quale sente tutta la propria debolezza e angoscia; è tutt’uno col popolo e suo portavoce quando si tratta di supplicare di essere liberati dai nemici.
Anche lei si presenta in modo particolare, si presenta come regina suo malgrado, regina divenuta tale solo per quel piano provvidenziale che le ha indicato Mardocheo: “Chi sa che tu non sia stata elevata a regina proprio in previsione di una circostanza come questa?”, e cioè perché il popolo possa trovare un aiuto. Ester fa sua questa prospettiva, poteva salvarsi tacendo la sua appartenenza, accetta invece la sfida di presentarsi al Re, e la sua preghiera diviene offerta di sé perché il Signore si serva della sua debolezza: una disponibilità che la preghiera deve aiutare a divenire fattiva. Se vuoi, o Signore, serviti di me per il tuo progetto: è atteggiamento importante per non separare la preghiera dalla vita e per mantenersi aperti ai progetti del Signore, che non sono mai i nostri.
La preghiera di Ester resta grido che nasce dalle viscere, dal profondo del cuore, sente tutta la gravità della situazione per tutti, sente tutta la sua solitudine e il pericolo che deve affrontare, ma, come i profeti , sa che solo il Signore può dare il coraggio, solo il Signore può dare le parole giuste e quindi non le resta che affidarsi e rimettere nelle sue mani la propria vita con quella del popolo e il Signore non si smentisce e viene in aiuto.
Giuditta
La preghiera riempie la vita di questa donna che, per il nome che porta, che significa “la giudea” rappresenta idealmente tutto il popolo. La donna nella Sacra Scrittura personifica spesso un popolo, ed anche la terra, la città e questo schiude a volte i testi a un significato ben più profondo. Giuditta agisce in una città che si chiama Betulia[34] e a riguardo di questo nome c’è una interpretazione ebraica che lo lega a “vergine”, e di fatto il compito di questa città sembra essere quello di difendere la “verginità”, l’integrità della Terra Promessa, di cui è come il baluardo verso Gerusalemme: violare Betulia è violare la Terra Promessa, Gerusalemme, il tempio, l’altare, per cui il suo assedio e la sua resistenza sono minaccia e salvezza di tutto Israele.
Giuditta ha la consapevolezza che si tratta di questo e non solo della salvezza di una piccola città assediata.
C’è lo scontro radicale tra l’idolatria e la fedeltà al Signore: da una parte c’è, al di là del suo luogotenente Oloferne, Nabucodonosor che ha bisogno sempre di nuove città, che non è mai pieno – è il potere per il potere che ha bisogno di fagocitare insaziabile, e a questo sono dedicati i primi sette capitoli del libro!-, dall’altra c’è una donna che è già piena del Signore e non ha bisogno di altro.
Giuditta compare al cap.8: è l’unica donna che ci è presentata nella Sacra Scrittura con una lunga genealogia e questo non ha tanto un valore storico, ma sta ad indicare che è pienamente radicata nella storia di Israele[35]: la sua genealogia risale fino a Giacobbe, attraverso un figlio di questi poco conosciuto, Simeone, della cui vita viene, nella Sacra Scrittura, narrato solo un episodio pieno di astuzia e di violenza, guarda caso a difesa di una verginità, quella della sorella, la cui violazione a lui, e al fratello Levi, sembra qualcosa che non può essere perdonato, neppure se colui che la ha compiuta è pronto a circoncidersi, per legarsi al popolo di Israele (cfr. Gn 34). Sono fatti su cui i testi biblici non esprimono alcun giudizio morale, non solo perché astuzia e inganno erano mezzi normali da mettere in atto nelle relazioni conflittuali (sempre meglio di armi e bombe atomiche ..), ma perché c’è sempre da chiedersi quale è il significato oltre i fatti. Comunque questo è il retaggio storico di Giuditta che diventa “esperienza” e da qui forse in lei scaturisce l’intuizione del modo con cui può affrontare Oloferne.
Giuditta è bella e usa anche lei, al pari di Ester, le armi della bellezza (cure, profumi , gioielli) come strumenti di cui il Signore può servirsi: nella Sacra Scrittura la bellezza è sempre legata al progetto di Dio, nessuno è bello ed empio, bello è Mosè, bello è Davide … è l’adesione al Signore che rende belli e rende saggi: più volte si sottolinea la saggezza di Giuditta e lo stesso Oloferne gliela riconosce.
Giuditta fa breccia nel nemico non solo per la bellezza fisica, ma per l’armonia che lei incarna, il corpo stesso è al servizio del suo vissuto, è coinvolto nella preghiera e in quello che dice, e tale armonia conquista.
Giuditta è vedova e la vedovanza è povertà, è debolezza, è vuoto, è mancanza, anche quando il marito ha lasciato ricchezze: queste non riempiono il cuore e la vita della vera vedova.
Giuditta è coerente, vive il digiuno, vive il lutto e questo in una tenda sul terrazzo, tenda che indica che sente di vivere come straniera e pellegrina, senza che nulla leghi il suo cuore: ormai per lei è importante solo il Signore e non vuole altro fino alla fine della sua vicenda umana:
“Era bella d’aspetto e molto avvenente nella persona; inoltre suo marito Manàsse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché temeva molto Dio.” (8,7-8).
Per capire Giuditta conta questo “timore Dio”, che è riconoscere Dio come Signore della storia, ma soprattutto è conoscenza del Signore, conoscenza che Giuditta dimostra parlando con gli anziani di Betulia, che invece mostrano di non conoscerlo.
Quando una città è assediata ad un certo punto non ce la fa più, manca l’acqua e la gente comincia a venir meno; i capi, che non conoscono il Signore, credono di andare incontro al popolo, mettendo un termine: se entro cinque giorni il Signore non farà piovere, si arrenderanno.
Ma Giuditta, vedova, che viveva appartata, ma informata, è capace di vedere oltre: il Signore non può essere trattato così, o si ha fiducia piena o non la si ha, solo gridando dal profondo a lui si ha speranza che ascolti il grido e che la salvezza sia nei suoi disegni, e poi il problema non è Betulia, ma Gerusalemme, non si tratta di difendere se stessi, ma tutto Israele, ecco dove attingere la forza per resistere ancora:
“Vennero da lei ed essa disse loro: «Ascoltatemi bene, voi capi dei cittadini di Betulia. Non è stato affatto conveniente il discorso che oggi avete tenuto al popolo, aggiungendo il giuramento che avete pronunziato e interposto tra voi e Dio, di mettere la città in mano ai nostri nemici, se nel frattempo il Signore non vi avrà mandato aiuto. Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non ci capirete niente, né ora né mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo del cuore dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere da parte dei nostri nemici. E voi non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possan fare minacce e pressioni come ad uno degli uomini. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido se a lui piacerà…
Noi invece non riconosciamo altro Dio fuori di lui e per questo speriamo che egli non trascurerà noi e neppure la nostra nazione. Perché se noi saremo presi, resterà presa anche tutta la Giudea e sarà saccheggiato il nostro santuario e Dio chiederà ragione di quella profanazione al nostro sangue…
Dunque, fratelli, dimostriamo ai nostri fratelli che la loro vita dipende da noi, che i nostri sacri pegni, il tempio e l’altare, poggiano su di noi. Oltre tutto ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. “(8,11-17.20-21.24-25.)
Giuditta ricorda la storia: quello che sta capitando va letto come “prova”, così è successo ai padri, a cominciare da Abramo … non vuol dire che il Signore ha abbandonato, il Signore prova coloro che gli sono vicini, perché la fede diventi più pura e profonda e il grido dal più profondo del cuore sia tale da essere ascoltato.
I capi riescono solo a dirle: “…prega tu per noi tu che sei donna pia e il Signore invierà la pioggia …”(8,31): loro restano lì, non aspettano dal Signore la salvezza, ma solo una prova meno dura, sperano di respirare un po’, con un po’ d’acqua dal cielo possono resistere qualche giorno in più. Vedete … dipende cosa si chiede! Giuditta ha il coraggio di chiedere la salvezza, i capi non ce l’hanno più , non sanno più pregare, perché il loro sguardo è ridotto a salvarsi giorno per giorno.
In realtà Giuditta ha già pregato, perché la sua vita è preghiera, e ha già intuito quello che lei, donna, può fare per il suo popolo: vede una via di uscita nella logica di Davide e Golia, del piccolo – e quindi anche di una donna – che affronta il potente:
“Voi starete di guardia alla porta della città questa notte: io uscirò con la mia ancella ed entro quei giorni dopo i quali avete deciso di consegnare la città ai nostri nemici, il Signore per mia mano provvederà a (da leggere “visiterà”) Israele.” (8,33).
La preghiera di Giuditta
Ed ecco che al cap. 9 abbiamo la sua preghiera, in cui è coinvolta con tutta se stessa, ma in comunione con il tempio di Gerusalemme: lei è donna, è lontana, ma trova il modo di essere in sintonia con tutto Israele.
Strana questa sua preghiera che si rifà alla storia di famiglia per dire a se stessa che, se il Signore aveva un suo misterioso disegno, quando Simeone uccise i nemici per vendicare la violazione della sorella, anche ora può servirsi di lei per sconfiggere Oloferne: vedete non pensa a qualcosa di edificante, di grande levatura morale, ma pensa solo che il Signore ha delle vie strane per tessere i suoi disegni non sempre comprensibili agli uomini. Non si tratta di ragionare, di trovare un giudizio sui fatti e una soluzione logica, ma di credere nel Signore e offrirsi come strumento, anzi Giuditta offre ciò che ha pensato lei di poter fare. E’ vero che i nostri pensieri devono essere messi dentro i progetti del Signore, ma è anche vero che, se noi abbiamo il cuore retto, il Signore si serve dei nostri pensieri per realizzare i suoi. Non esiste un progetto che coinvolge la nostra vita che è estraneo a noi stessi, in cui ci dobbiamo inquadrare: si può e si deve tessere insieme, noi e il Signore. In questo senso la disponibilità di Giuditta al Signore è totale, nella preghiera:
“Guarda la loro superbia, fa scendere la tua ira sulle loro teste; infondi a questa vedova la forza di fare quello che ho deciso.” (9,9).
Giuditta presenta al Signore ciò che è arrivata a pensare per la salvezza del popolo e chiede al Signore di benedirlo, di farlo tramite lei:
“spezza la loro alterigia per mezzo di una donna. Perché la tua forza non sta nel numero, né sugli armati si regge il tuo regno: tu sei invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati.” (9,10-11).
La preghiera di Giuditta è ancora più personale di quella di Ester, è come se lei avesse una conoscenza più profonda del Signore, lo conosce quale si presenta nel N.T., il Signore dei poveri, degli anawim che confidano solo in lui. E la sua preghiera si chiude così:
“Da a tutto il tuo popolo e ad ogni tribù la prova che sei tu il Signore, il Dio d’ogni potere e d’ogni forza e non c’è altri fuori di te, che possa proteggere la stirpe d’Israele”(9,14).
Giuditta ha chiesto aiuto per la sua impresa, ma non prega per sé, ma perché siano sconfitti i nemici e il popolo recuperi la fede. Vuole che il Signore mostri il suo vero volto al popolo che lo ha dimenticato nella prova, nella sfiducia, non contraddetta dai capi.
L’impresa va in porto felicemente, il Signore salva il popolo e Giuditta stessa, a cui non è capitato nulla di sconveniente e lei lo sottolinea subito:
“«Lodate Dio, lodatelo; lodate Dio, perché non ha distolto la sua misericordia dalla casa d’Israele, ma ha colpito i nostri nemici in questa notte per mano mia ….per mano di donna. Viva dunque il Signore …” (13,14.16).
Il popolo adora il Signore e uno dei capi le dice:
“Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici…” (13,18).
E così quando arriva a Betulia la delegazione ufficiale di Gerusalemme che viene a rendersi conto di quanto il Signore ha operato, esclama:
“Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente….” (15,9)[36].
Ma Giuditta è una vincitrice particolare: di solito ai vincitori, come abbiamo visto con Iefte, vanno incontro, cantando e ballando, le donne: qui, Giuditta si mette alla testa, guida la danza ed eleva la lode al Signore che troviamo al cap. 16.
Il cuore di Giuditta è libero, non rivendica nulla per sé: sapeva e sa di essere stata solo strumento nelle mani del Signore, per cui il ringraziamento va a lui solo, può cantare anche se stessa, senza presunzione, senza vanto di meriti, senza rubare la gloria al Signore, il vero Salvatore è lui che sa servirsi anche della mano di una donna. Il cap. 16 è il Magnificat di Giuditta e che sia così lo si coglie da un particolare: quando parla del popolo dice sempre “mio”, si fa tutt’uno con il popolo, ma anche quando parla di Dio usa “mio”, è tutt’uno anche con lui, per questo esaltare lei, è esaltare il Signore.
Tutto questo ha una grossa conferma nei fatti: quando si reca a Gerusalemme, essa offre tutto quanto gli era stato dato dei beni di Oloferne, compresa la cortina che lei stessa si era portata insieme alla testa come prova dell’uccisione e del non aver subito violenza, tutto offre al Signore (cfr.16,19) e conserva integro il suo proposito di essere affidata a Lui solo, “nessun uomo potè avvicinarla per tutti i giorni della sua vita” (16,22), nonostante che riceva una vita lunga come benedizione del Signore.
E se si osserva l’atteggiamento di Giuditta verso il popolo, il suo sentire con esso, possiamo dire che Giuditta è madre, anche se a suoi figli carnali non si accenna: è madre spirituale perché fa conoscere il vero volto di Dio e la radicalità della fede, è una madre che genera alla fede e alla libertà.
Genera alla libertà non solo perché libera dai nemici, ma perché compie anche quello che può essere considerato un atto gratuito e massimo di espropriazione, di spossesso: rende libera l’ancella, sicuramente la preferita, quella che la ha accompagnata al campo di Oloferne e, nel mondo antico, il legame più forte, più duraturo che esisteva accanto ad una donna, ancor prima che il marito, era quello con la schiava preferita, che la aveva seguita dalla casa paterna (quando non l’aveva anche allevata) e che le restava acconto in tutte le traversie della vita, Giuditta non la trattiene per sé (cfr. 16,23).
Davvero la preghiera ha reso Giuditta una creatura che si è totalmente consegnata al suo Signore.
E alla conclusione del libro si dice: “Né vi fu più nessuno che incutesse timore agli Israeliti finché visse Giuditta e per un lungo periodo dopo la sua morte.”(16,25): i personaggi che operano nella fedeltà al Signore, nella Sacra Scrittura, hanno una fecondità che dura anche dopo la loro morte, per cui la situazione che hanno creato dura oltre di essa[37].
Non sarà così, forse invisibilmente, anche per coloro che pregano dal più profondo del loro cuore per tutti gli uomini, sconfiggendo dentro di sé i tanti idoli odierni e affidandosi totalmente alla mani del Signore?
C’è una maternità dei credenti che sono esposti, ma sempre protetti, senza la quale non c’è compimento, Babilonia non cade, la Gerusalemme celeste non scende, anche se la salvezza è già innestata nella storia col mistero Pasquale.[38]
Giuliana Babini de Jesus Carita 78/2000 – 81/2001
[1] Matta il Meskin, “Consigli per la preghiera” Qiqajon 1988 p. 64-67.
[2] Ricordiamoci che fare giustizia è = a salvare (perché anche la punizione è sempre in funzione della salvezza se ha per soggetto il Signore) e che l’attesa, come ci ricorda l’Apocalisse, è perché anche gli altri si possano salvare, ma in realtà il testo greco dice pazienta con loro (avrà il cuore grande su di loro, il che è l’opposto dell’adirarsi …).
[3] Forse non ci fa male ricordare che Lc ci racconta un episodio in cui gli apostoli non possono far nulla, Gesù invece guarisce e commenta che solo con la preghiera a volte è possibile vincere il male, cfr. l’episodio dell’epilettico indemoniato in Mc 9,14-27 (//Lc 9,37-43 //Mt 17,14-18).
[4] Anthony Bloom, Scuola di preghiera, Piemme 1998, p. 82-84.
[5] Ivi p. 86 e seguenti.
[6] Davvero tanti sono i testi che ci possono venire in mente dai detti dei padri del deserto ( cfr. n.587 in Detti inediti dei Padri del deserto, Qiqajon 1986, p. 230, ai diversi testi di Silvano dell’Athos ( “Non disperare” , Qiqajon 1988 o per es. “Signore fammi versare lacrime per me e tutto il mondo, affinché tutti i popoli Ti conoscano…” in A. Sofronio, Silvano del Monte Athos, Gribaudi p.345) o anche La saggezza dei Chassidim ( es. n.13 p. 18 ed. Piemme), ecc.
[7] Citato in E. Bianchi, La preghiera: apertura ad una comunione, (lectio) Bose.
[8] D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa, Paoline 1988, p.441.
[9] Esiste una variante a Lc 11,2 che al posto di “venga il tuo regno” dice “venga il tuo Spirito Santo” con conseguente identificazione Regno-Spirito, che in fondo sono pure l’unica cosa necessaria (cfr. Marta e Maria).
[10] I Padri dicevano “Dai sangue e riceverai spirito” e non si riferivano solo al martirio, ma alla lotta spirituale che fa del credente una preghiera vivente ….un consegnato al Signore. Illuminante e simpatica a questo proposito è la storia : M.D. Grassiano, L’uomo sulla colonna – Simeone di Sis, lo Stilita -, Città Nuova 1998.
[11] Cfr. Sap 11,23-26.
[12] Matta El Meskin, L’esperienza di Dio nella preghiera” Qiqajon Bose 1999 p. 35, ma sullo stesso tema è tutto il capitolo.
[13] Testimoni n. 20 del 1998, p. 22ss.
[14] Giulio Basetti-Sani e Matteo Verderio, Musulmano e cristiano L’impossibile vicenda del francescano Giovanni – Maometto, Ancora, 1998.
[15] Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Mi 1996; Lettere 1942-1943, Adelphi 1998. Etty è ebrea, ma amava leggere anche il N.T. : viveva in modo disordinato, ma trova la preghiera nella vita ed essa diventa la sua cella, la trasforma, facendola crescere fino a quella maturità e forza interiore che permette di far dono liberamente della propria vita e, questo, in quel contesto particolare che era la persecuzione degli ebrei, in cui lei si sarebbe forse potuta salvare, ma scelse di stare con la parte perdente.
[16] Va colta l’assenza assoluta di passività che vi è in queste frasi (Non credo che si possa migliorare qualcosa del mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi) e il senso di fierezza (Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato, e soprattutto che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la sua parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria): molto profondamente Etty era convinta che nulla di ciò che capita, che altri ti fanno ti raggiunge in quel nucleo interiore dove tu liberamente hai deciso cosa essere di fronte alla vita.
[17] Abraham Joshua Heschel, Il canto della libertà,Ed. Qiqajon, Bose 1999, pp.95-107.
[18] Sono invece proprio pagine di questo tipo che rivelano in pieno il limite delle nostre interpretazioni moralistiche, attente più ai comportamenti che alla rivelazione e alla profezia che avranno piena luce in Cristo: la Parola di Dio non solo non squalifica, ma rivaluta personaggi come Tamar, Raab … e Iefte, che di fatto è ricordato come esempio di chi opera per fede nella Lettera agli Ebrei (11,32-33), e tra coloro su cui Dio fa scendere lo Spirito e trasforma da deboli in guide carismatiche da Giovanni Paolo II, in una delle catechesi del Mercoledì del 1998.
[19] Basta andarsi a leggere le vocazioni dei profeti, ma anche quella del Battista e quella di Gesù stesso come è espressa nel suo Battesimo..
[20] Lo vediamo con Miriam nell’Esodo, con Davide in 1Sam 18,6, nel libro di Giuditta 15,13s.
[21] Il Signore concederà infatti che possano tenersi il bestiame!
[22] Dobbiamo ricordarci che non sappiamo, e non possiamo, vista la redazione più tarda dei testi, sapere quando una certa disposizione è diventata legge per tutto Israele, forse ai tempi di Iefte questa condanna poteva non essere ancora così esplicita, dato che tali sacrifici erano pratica accattivante delle popolazioni che circondavano Israele.
[23] E nel testo biblico Isacco è passivo, anche se poi esiste un midrash che lo mostra con una obbedienza attiva e consapevole.
[24] Ricordiamoci che per noi Gesù Cristo è la chiave interpretativa di ogni pagina biblica!
[25] Quanti commenti lo fanno!
[26] Eb 5,7-8: abbiamo già citato questo testo nella prima parte, ma è come la radice della comprensione cristiana della preghiera.
[27] La verginità è forma estrema di povertà, spogliazione .. le donne bibliche preferirebbero morire che restare senza figli (cfr. grido di Rachele Gen30,1)
[28] “Piangere” è già una cattiva interpretazione della LXX, perché si piange una figlia sacrificata inutilmente, come se fosse solo un evento di violenza, mentre è scena di verginità feconda, di vita data per la salvezza.
[29] cfr. le preghiere eucaristiche III e IV.
[30] Artaserse nella redazione greca: anche i nomi sono diversi oltre che la cornice ed altri particolari.
[31] L’uomo è indicativo delle Istituzioni e Mardocheo ne è un esempio, perché sembra, anche quando non ha cariche ufficiali, il portavoce delle Istituzioni ebraiche che, in quel momento non erano attive, perché gli ebrei erano sotto il dominio straniero
[32] Un certo tipo di mistica non è il prorompere di questa diversità?
[33] E’ una dinamica fondamentale nella Sacra Scrittura e culmina per così dire nel cap. 12 della Lettera gli Ebrei.
[34] In realtà è città sconosciuta, collocata all’ingresso della strategica pianura di Esdrelon.
[35] Anche nei Vangeli le genealogie di Gesù stanno a indicare questo e la sua vera appartenenza all’umanità.
[36] Come già il tema della visita in 8,33, così queste espressioni rimandano a quanto viene detto di Maria in Luca e nella liturgia.
[37] Cfr. Giosuè 24,31 “Israele servì il Signore per tutta la vita di Giosuè e tutta la vita degli anziani che sopravvissero a Giosuè e che conoscevano tutte le opere che il Signore aveva compiute per Israele.”
[38] Non sembri strana questa conclusione escatologica, perché i libri di Giuditta e di Ester hanno senz’altro questa dimensione nella interpretazione ebraica, che possiamo fare nostra: ogni lotta è figura di quella finale, quale la troviamo rivelata nell’Apocalisse. Cfr G. Babini,I libri di Tobia, Giuditta,Ester, Città nuova 2001.