Giuseppe ed Elkanà: accogliere la propria donna e ciò che porta dentro, nel cuore prima che nelle viscere.
Elkanà ci viene presentato subito (1 Sam 1) come un personaggio importante per la genealogia e il suo essere collocato tra le montagne di Efraim, zona importante all’epoca per Israele, ma poi ci è detto che aveva due mogli, una, Pennina con figli e figlie, una, Anna senza, ma amata e citata per prima. Siamo di fronte ad una situazione analoga a quella vissuta da Giacobbe con Rachele e Lia; mentre, però, con il patriarca siamo di fronte a tutta la fatica che lui deve fare per avere Rachele che amava, e quindi il contrasto tra le due donne è conseguenza di una unione da Giacobbe non ricercata, qui non sappiamo, anche se la donna feconda sempre, allora, si sentiva superiore alla sterile, in quanto fecondità e sterilità richiamano benedizione e maledizione del Signore. All’’epoca era, per una donna, più socialmente rilevante essere madre, garanzia di una continuità e di potenza per la famiglia, che sposa.
Il momento in cui la famiglia andava in pellegrinaggio a Silo, alla casa del Signore, ed Elkanà offriva il sacrificio di comunione era uno di quelli che metteva in risalto la diversa situazione delle due donne davanti alla distribuzione delle parti per il banchetto. Ad Anna era data una porzione speciale perché amata, ma la rivale l’umiliava per la sua sterilità ed Anna si metteva a piangere invece di mangiare. E qui troviamo una delle frasi più tenere che uno sposo potesse allora dire: “Elkanà, suo marito, le diceva: Anna perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?” (1 Sam 1,8). Non si comprende perché molti commentatori, invece della tenerezza, vi vedono l’incapacità di cogliere la sofferenza della moglie amata. Cosa poteva fare se non continuare ad amarla?[1]
Anna, forse per non rattristarlo, si alza e affranta va a pregare in cuor suo (cosa inusuale al suo tempo, si pregava a voce alta), piangendo e supplicando il Signore[2], proprio quel Signore che sembra aver reso sterile il suo grembo, di donare a lei sua serva (tre volte si dice tale) un figlio maschio, che lei si impegna ad offrire al Signore per tutta la sua vita[3]. Del suo modo di fare deve render conto al Sacerdote Eli che la pensa ubriaca, ma poi comprende e la consola. Lei, ritornata al banchetto, mangia “e il suo volto non fu più come prima”. Forse questo accade, non tanto per le parole dell’anziano sacerdote “Va’ in pace e il Dio di Israele ti conceda quanto gli hai chiesto”, quanto la sua preghiera piena di fede che la fa sentire ascoltata ed esaudita dal Signore, che solo può vincere la sterilità (ed Anna, in seguito, avrà ancora figli e figlie 1 Sam 2,21).
La parte di Elkanà non è solo l’unirsi a sua moglie che concepisce e partorisce così un figlio che chiama Samuele “perché diceva al Signore l’ho richiesto”, ma anche quella di accogliere ciò che desidera la moglie: “Fa’ pure quanto ti sembra meglio, rimani finché tu lo abbia svezzato. Adempia il Signore la sua parola!”. Le lascia compiere il voto, solo la sua adesione lo rendeva valido (e al v.21 pare suo). Avrebbe potuto rivendicare altro per suo figlio o determinare lui i tempi, invece lascia a lei l’iniziativa. In seguito poi accompagna madre e figlio a Silo e ritorna senza il fanciullo, che resta con il sacerdote Eli che lo guida fino a riconoscere la chiamata personale che il Signore gli farà. Molte cose si potrebbero dire di Samuele, dalla sua presentazione al santuario alla complessità della sua funzione presso Israele, ma qui vogliamo fermarci agli sposi.
Il loro rapporto è pieno di attenzioni dell’uomo verso la sua donna, senza pretese sul figlio che è suo, ma sa che è da lei ottenuto e voluto per il Signore. Elkanà accetta che Anna sia la protagonista, lui resta in secondo piano, un po’ come a tratti Zaccaria e ancor più Giuseppe che accoglie un figlio non suo, venuto dal Signore per la salvezza delle genti.
Questo atteggiamento in una società patriarcale è una novità sempre eccezionale, anche se già vissuta in altro modo dalle matriarche: una fessura, un indizio che annuncia altra prospettiva.
Se la relazione fisica tra gli sposi è diversa per Elkanà e Giuseppe, non lo è quella fatta di attenzione, rispetto, amore reciproco tra gli sposi e non lo è il modo di porsi davanti a quel particolare figlio della donna amata e alla sua vocazione, che trascende quello che possono intuire i genitori.
Giuseppe si sarà soffermato volentieri sulla figura di Elkanà che, come lui, pone la donna amata al di sopra della propria genealogia, e accoglie il mistero di un figlio che è come non suo, concesso per un disegno che va ben oltre la famiglia a cui appartiene. In questi due uomini non ci sono pretese né rivendicazioni, ma un tacito acconsentire solidale.
Dio assume ciò che Anna desidera e lo porta avanti per motivi che vanno oltre; Maria assume ciò che Dio desidera per il suo progetto di salvezza, cogliendo che è molto di più della sua propria pienezza di vita.
Elkanà e Giuseppe, chiamati a condividere ciò che Dio tesse con le loro spose, non si tirano indietro, restano spiazzati, ma accompagnano. Certo poi Elkanà avrà una vita consueta, Giuseppe resta sospeso a ciò che non vedrà accadere, affidato al mistero. Comunque in ambedue le coppie possiamo ammirare lo straordinario accogliere un figlio come dono e non possesso.
Nonostante la diversissima situazione di vita c’è un legame forte tra Anna a Maria, entrambe si dicono serve del Signore e alludono alla propria pochezza[4]. Maria pare essersi nutrita del cantico che fa Anna dopo aver consegnato il figlio al Santuario al punto che ne fa risuonare uno simile con il Magnificat: lasciando da parte i problemi esegetici, conta la prospettiva della storia salvifica, l’esultare per quanto fa il Signore in ogni epoca, in ogni vita e il far cogliere come si intreccino iniziativa divina e umana.
Elkanà, così attento ad osservare il pellegrinaggio annuale, Giuseppe, più che giusto, non solo avranno condiviso quanto celebrano le loro donne, ma ci fanno cogliere come la delicatezza e la fedeltà verso di esse non può essere disgiunta da quelle verso il Signore, anche se poco ci è detto, nei testi, del loro vissuto interiore.
[1] Giacobbe stesso a Rachele che gli dice: “Dammi dei figli, se no io muoio!” non può che rispondere: “Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?”. Solo il Dio della vita chiude o apre un grembo.
[2] Anna lo invoca come “Signore degli eserciti”, un titolo che pare strano nella preghiera di una donna, ma era quello probabilmente usato a Silo (1,3), e poi essa viene da Efraim, dove poteva essere viva la memoria di Giosuè e della sua teofania, una memoria che fondava la fede sul Signore che sconfigge ogni nemico, e anche la sterilità è tale all’epoca per una donna.
[3] Chiede il massimo col figlio maschio e offre il massimo, andando oltre la normale relazione madre-figlio; nazireo voleva dire, non una vita celibe o reclusa, ma vincolata ad alcune norme in più come espressione di legame particolare col Signore.
[4] Non si comprende molto perché gli stessi termini greci sono tradotti nell’A.T “schiava e miseria” e nel Nuovo “serva e umiltà”.