FRATELLO DI SPERANZA E DI ACCOGLIENZA
Di Carlo molti altri hanno più cose da dire, la mia è stata più un’amicizia di desiderio che effettiva, perché, di fronte all’uomo ricercato da tutti, io mi sono fermata sulla soglia ad osservare. Cosa ho colto? Speranza e accoglienza: due note caratteristiche prevalenti che stranamente, o meglio forse coerentemente, ho ritrovato all’inizio e alla fine del suo ultimo scritto “E Dio vide che era cosa buona”, ripreso in mano per dialogare con lui che ci aveva appena lasciati. Esso si apre con un inno all’ospitalità che può scaturire solo da un cuore educato alla tenerezza verso ogni uomo e quindi anche verso sé stesso; esso si chiude con due semplici parole “Dio vince“.
“Dio vince“, può sembrare una espressione trionfalistica, ma non lo è in bocca a chi sta sperimentando il lento morire della propria esistenza, non lo è in bocca a chi è nella prova. Allora “Dio vince” diviene affermazione che rende ragione della propria fede, attesta la speranza, è vedere la luce del Risorto al di là delle tenebre, è avere sperimentato nella propria vita “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia;io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).
Ogni uomo prima o poi deve farsi discepolo della morte che viene, così come fece Gesù di fronte alla morte di Lazzaro.
“Gli dissero: – Signore, vieni e vedi! “: proprio le stesse parole che Lui usava per chiamare i discepoli (cfr Gv 1,39), ora le ascolta da parte degli uomini che sanno cosa è la morte, deve prepararsi a morire, farsi discepolo del morire. Lazzaro ritornerà in vita, ma Gesù dovrà affrontare la morte, commosso e turbato, “nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà.” (Eb 5,79: certo dell’ascolto del Padre di fronte alla tomba di Lazzaro, lo è anche davanti alla croce voluta per Lui.
Gesù quindi ha sperimentato la profondità della morte, ma la sua morte diviene annuncio di salvezza per tutte le genti, “messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunciare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione.” (1Pt3,18s).
Nel Signore Gesù ogni morte cristiana è raggiunta da questo annuncio di salvezza e per questo si può cantare e rallegrarsi. E’ vero sappiamo così poco dell’al di là, né le discussioni teologiche possono aiutarci molto e le immaginazioni di stile dantesco, in un certo senso, violano un mistero che va accolto così.
A volte certe sofferenze nella vita ce le procuriamo noi, per cui possiamo dire che sono conseguenza delle nostre colpe o almeno, anzi più spesso, dei nostri limiti, ma di fronte alla morte mi pare che possiamo pensare che siamo tutti un po’ innocenti come Lui lo era. Nnoi non amiamo mai abbastanza, come Carlo andava ripetendo nei suoi libri fino all’ultimo con tanta sintonia con quanto Charles de Foucauld scriveva il 1° Dicembre prima di morire, ma se noi soffriamo per questa nostra incapacità, ritroviamo una specie di non colpevolezza, una partecipazione purificante alla morte del Cristo e al suo trionfo su di essa, “nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare.” (1 Pt4,13).
Solo “chi non ama, rimane nella morte” (1 Gv 3,14), colui che muore nell’amore (“e voler amare significa amare”, diceva Charles de Foucauld) come Gesù, è vivente in quel mistero di misericordia con cui Dio avvolge le sue creature, non accusa più nessuno, libera ogni persona che ha avuto a che fare con lui, anzi proprio quelli che lo hanno ferito, da ogni imputazione.
Per Lazzaro (Gv 11,45 ss), Gesù muore, ma senza fargliene rimprovero, anzi va a cena in casa sua: la sua morte, come già la risurrezione di Lazzaro, è perché credano (Gv 11,15.42; 19,37), è per la “gloria” (Gv 11,4), è per la “pace” (Gv 14,27; 20,19), è per trascinare con sé i peccatori, “oggi, sarai con me in paradiso” (Lc 23,43).
Vi è la fede di Marta che dice “Risorgerà”, vi è la fede di Maria “E’ vivo”; questa non è immediata come quella di Marta, ma scende nelle profondità. Nella morte del fratello, vede la morte di Gesù e in questa qualcosa che sfugge alla morte, il profumo…
Di fronte alla morte di Carlo, credo che sia facile passare dalla fede di Marta a quella di Maria e dire nel mistero della fede “è vivo”: vivo non perché Spello continuerà, vivo perché lo è nei cuori di tanti, ma perché “Colui che crede nella Vita, vivrà” (cfr Gv 11,25), vivo perché credente, vivo perché non si è stancato di dire “Dio vince“.
La nostra vita è piena di morti quotidiane (cf 1Cor 15,13 s), fallimenti, tradimenti, abbandoni, solitudine, ferite di ogni tipo. Di fronte ad ognuna la voce di Carlo risuonava “Coraggio! Dio ti ama! Dio vince!” quasi a ripetere per ognuno il biblico “Nulla è impossibile a Dio “, vincerai gli ostacoli, Dio ti visiterà, Dio ti rende figlio, sarai fecondo, sarai vivo, anche se il Padre ti lascerà bere il calice che Gesù ha bevuto (cf Mc 10,27; Lc l,35s; Mt 3,9; Mc 14,36; Gen 18,14).
Questa fede-speranza non può non abbracciare l’universo. Non si può credere che Dio sia un Padre tenero e accogliente senza desiderare questo per ogni creatura: “Hai compassione di tutti . . poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato . . . tutte le cose sono tue, Signore, amante della vita” (Sap 11,23 ss).
La speranza si fa esaltazione della vita, tenerezza per ogni creatura, accoglienza e Carlo aveva interesse, ascolto per chiunque gli comparisse davanti.
E senza speranza non si regge all’amore. Su questa terra troppo vasta è l’esperienza del male: quante sofferenze fisiche, psichiche, spirituali trafiggono il cuore di chi ascolta! Solo la speranza le fa accogliere credendo all’Amore.
Diversamente sarebbe amore facile, fratellanza superficiale e invece la tenerezza di Dio passa attraverso la croce e accoglie ciascuno nel suo segreto profondo che è sempre sofferto. E’ più facile infatti recitare nella vita, che far emergere quello che ciascuno è: è una delle nostre fughe e Carlo lo sapeva e non solo aveva percorso lui il duro cammino, ma aiutava a percorrerlo; sentivi che lo desiderava per te, anche se non ci parlavi!
L’autenticità è un parto a cui nessuno sfugge, scoprirsi, mettersi a nudo nel proprio io profondo è possibile solo nel mistero della pietà di Dio: per molti è il cammino di una vita, per molti forse è solo il momento della morte, per altri lo scopriremo nell’al di là, per tutti il culmine sarà l’incontro, il faccia a faccia con Dio. Beati noi se al tramonto della vita potremo ripetere con Paolo, – e con Carlo, – “Ho conservato la fede” (2 Tim 4,7).
Giuliana Babini in Jesus Caritas 1988